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Ci furono messaggi in codice di Moro alla loggia P1?

Con questo articolo si intende tentare l’impossibile: congetturare una lista comprendente i nominativi individuati da Aldo Moro come destinatari di alcune sue missive vergate durante i cinquantacinque giorni di prigionia, che all’epoca del rapimento e dell’assassinio del noto statista potrebbero essere stati appartenenti o contigui alla loggia massonica Propaganda 1.
     I condizionali sono d’obbligo. E sia ben chiaro: non v’è certezza, ma solo supposizione sul fatto che Moro si rivolgesse a fratelli di una loggia massonica, come ipotizzato nel saggio vergato da chi scrive "Il segreto di Moro", e pubblicamente affermato dalla figlia dello sfortunato politico, Maria Fida, (vedi l’articolo "P1, al secolo loggia Propaganda 1").
     Secondo quanto stabilito dalla Bolla di fondazione della loggia Propaganda 1 «per i fratelli della L. P1 non sarà tenuto nessun archivio né sarà loro consegnato nessun documento». Dunque sembrerebbe, per statuto, affermata l’inesistenza di una lista ufficiale di quella loggia, ed impossibile il ritrovamento di tessere della P1. Per averne qualche nome si tenterà di aggirare alcuni ostacoli.
     Dai contenuti della Bolla della P1 sembra si tratti di una loggia massonica occulta, tra l’altro definita segreta, priva di un riepilogo di fratelli ad essa appartenenti. Tentare quindi una ricostruzione organica ed esaustiva degli appartenenti della P1 appare una vera "mission impossible". Tuttavia in questi casi non bisogna scoraggiarsi, come a priori sembrano aver fatto elementi della magistratura venuti a conoscenza della presunta loggia massonica "Ungheria": e con la logica ed i ragionamenti tentare di arrivare quantomeno a delineare i contorni di quella consorteria di fratelli.
     La Bolla di fondazione stessa fa intanto dei nomi, quali l’immancabile Licio Gelli, Domenico Bernardini, e Sandro Del Bene. L'essere firmata in calce dal Gran Maestro dell'epoca Lino Salvini equivale ad affermare che tra logge segrete di vertice e Grand'Oriente d'Italia ci fosse comunanza di intenti e conoscenze. Inoltre sembrerebbe legittimo presumere che ne abbia a che vedere l’ing. Francesco Siniscalchi, il quale ha fornito copia dattiloscritta leggibile della Bolla alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2. Proprio la Commissione citata ha supposto che Licio Gelli, Maestro venerabile della P2, fosse l’elemento cerniera tra la loggia P1, intesa come oscura associazione di vertice pensante e stabilente, e la sottostante manovalanza obbediente di alto livello, raccolta sotto le insegne della loggia Propaganda 2, la cosiddetta P2. Le decisioni del vertice supremo, la P1, sarebbero dovute essere messe in campo dai disciplinati fratelli della P2, con imposizioni tassative che avrebbero via via coinvolto, secondo le gerarchie, gli sprovveduti sottomessi massoncini di base. Sarebbe questo il metodo utilizzato per comandare nel paese, accaparrandosi le cariche amministrative più prestigiose e remunerative, svincolandosi dal rispetto che il ruolo pubblico imporrebbe, anzi celandosi dietro di esse, senza mai apparire alla luce del sole. Troviamo così personaggi storici abilmente nascosti dietro il simbolo della croce della Democrazia cristiana, a bearsi dell’ostia benedetta, mentre nelle segrete stanze stabilivano ben altri ordini che nulla avevano di cristiano.
     Per tentare di fare altri nomi che potrebbero aver avuto un ruolo importante in quel sistema di potere coperto, si ritiene utile riprendere ad analizzare gli scritti di Moro durante la prigionia. Ci si riferisce soprattutto all’utilizzo ambiguo del termine "famiglia", notato già da Leonardo Sciascia, come spiegato nell’articolo Leonardo Sciascia e "L'affaire Moro". Per la verità anche Miguel Gotor, a pag. 308 del suo testo "Lettere dalla prigionia", ed. Einaudi, fa presente che «il concetto di famiglia nelle lettere di Moro è carico di una ambiguità e di una polisemia che merita di essere registrata». Lo storico, tenendosi largo per non esporsi in considerazioni azzardate, dà una spiegazione di equilibrio: «Se nelle lettere ai congiunti egli si riferiva chiaramente al significato primario di nucleo parentale, in quelle ai politici a volte sembra essere utilizzato come sinonimo di partito o di corrente, perché altrimenti il termine non avrebbe alcun senso compiuto», anche se poi nel suo successivo libro "Io ci sarò ancora", ed. Paper First, a pag. 133 esclude nelle parole di Moro «l’ipotesi dell’esistenza di messaggi segreti o in codice».
     Secondo le convinzioni di chi scrive, riportate nel saggio "Il segreto di Moro", lo sfortunato prigioniero delle Br non perse l’occasione di utilizzare la sua intelligenza superiore per scavalcare la censura brigatista e, come sostenuto da Sciascia, «tentare di comunicare qualche elemento» agli amici al di fuori, che avrebbero ben saputo decriptare i messaggi da lui secretati. Indi, con gli elementi a disposizione, si potrebbe tentare di individuare chi fu scelto da Aldo Moro per inviare messaggi in codice, amici che in qualche modo fossero in contiguità con le logge massoniche coperte di vertice, secondo l’affermazione di sua figlia Maria Fida.
     Se fosse vero, come la stessa ha dichiarato, che suo padre si riferiva, tra l’altro, alla P1, di seguito si prova ad individuare i nominativi ai quali Moro inviò messaggi con testi particolari o sibillini, oppure nei quali il termine "famiglia" non sembra aver assunto il significato di insieme di persone legate dal vincolo di sangue o di parentela.

- 29/03/1978 - Prima lettera a Francesco Cossiga
Tale lettera è di fondamentale importanza in quanto il prigioniero aveva ricevuto assicurazioni da parte Br sulla trasmissione della stessa in forma riservata. Svincolandosi presuntivamente nell’occasione dal segreto iniziatico, Moro si sarebbe lasciato andare, nella scrittura, ad allusive indicazioni indecifrabili per i più, ma ben chiare per chi fosse appartenuto allo stesso sistema di potere.
Infatti, nello scrivere "in modo molto riservato", Moro si riferisce ad un gruppo di "amici con alla testa il Presidente del Consiglio" che farebbe pensare ad una organizzazione occulta di vertice: «In tali circostanze ti scrivo in modo molto riservato, perché tu e gli amici con alla testa il Presidente del Consiglio (informato ovviamente il Presidente della Repubblica) possiate riflettere opportunamente sul da farsi, per evitare guai peggiori». Scrivendo a Francesco Cossiga e riferendosi al Presidente della Repubblica Giovanni Leone, Moro individua nel Presidente del Consiglio Giulio Andreotti il capo di questo ipotetico gruppo.
Poi, nella stessa lettera, Moro chiarisce che l’obiettivo delle Br non sia la Dc, ma il "gruppo dirigente", forse la P1 a cui si riferiva Maria Fida. Infatti così scrive il prigioniero: «Devo pensare che il grave addebito che mi viene fatto, si rivolge a me in quanto esponente qualificato della DC nel suo insieme nella gestione della sua linea politica. In verità siamo tutti noi del gruppo dirigente che siamo chiamati in causa ed è il nostro operato collettivo che è sotto accusa e di cui devo rispondere». In sostanza Moro si lamenta con gli "amici" del fatto che addosso a lui soltanto stanno ricadendo le colpe avanzate dai brigatisti, che invece sono da attribuire a tutti i componenti del "gruppo dirigente" oscuro, a cui allude.
Infine, affermando di "avere tutte le conoscenze", minaccia di rivelare la composizione del "gruppo dirigente": «…io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato, che sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni». Minaccia per la verità mai messa in atto per paura di ripercussioni e vendette nei confronti della sua famiglia naturale ed affettiva.
Nella missiva con la quale Moro si scaglia contro i membri di vertice della Dc, rinvenuta col memoriale, e dove dichiara «…la mia completa incompatibilità con il partito della Dc. Rinuncio a tutte le cariche, esclusa qualsiasi candidatura futura, mi dimetto dalla Dc», egli conferma che a comandare fosse «l’On. Andreotti, del quale gli altri sono stati tutti gli obbedienti esecutori di ordini», notazione che si adatta bene ad un sistema verticistico obbediente come la massoneria e non ad un partito democratico come la Dc, peraltro composto da svariate correnti. Una volta compreso che gli "amici fraterni", su ordine di Andreotti, lo avrebbero abbandonato alla sua sorte, sentenzia: «Le auguro buon lavoro, On. Andreotti, con il Suo inimitabile gruppo dirigente e che Iddio Le risparmi l’esperienza che ho conosciuto…» dandoci conferma che l'"l'inimitabile gruppo dirigente" di cui Andreotti era a capo fosse ben altra cosa rispetto alla Dc. Infatti Andreotti nella sua lunga carriera politica assunse una miriade di incarichi ministeriali e fu sette volte presidente del consiglio, pur disponendo di una corrente, la Andreottiana, mai numericamente determinante, e soprattutto senza assumere mai incarichi dirigenziali importanti all’interno della Dc. Il fatto che Moro fosse a conoscenza di questo "inimitabile gruppo dirigente" con a capo Andreotti, il quale potrebbe avere concreta assonanza con la P1, loggia all’epoca del tutto sconosciuta, farebbe presumere che lui stesso ne avrebbe forse fatto parte.

- 04/04/1978 - Lettera a Benigno Zaccagnini
«Caro Zaccagnini, scrivo a te, intendendo rivolgermi a Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari, Fanfani, Andreotti e Cossiga ai quali tutti vorrai leggere la lettera e con i quali tutti vorrai assumere le responsabilità, che sono ad un tempo individuali e collettive». Ma la Democrazia cristiana considera la lettera "moralmente a lui non ascrivibile".
In essa v’è una frase nella quale il termine "famiglia" non sembra riferirsi al significato classico di "propri cari": «E' peraltro doveroso che, nel delineare la disgraziata situazione, io ricordi la mia estrema, reiterata e motivata riluttanza ad assumere la carica di Presidente che tu mi offrivi e che ora mi strappa alla famiglia, mentre essa ha il più grande bisogno di me. Moralmente sei tu ad essere al mio posto, dove materialmente sono io». A quale "famiglia" allude Moro, quella affettiva o quella massonica? In effetti non si capisce bene di quale "grande bisogno" avrebbe avuto la sua famiglia naturale, al di là, naturalmente, della "disgraziata situazione".
Leonardo Sciascia così commenta: «Ora queste affermazioni sul bisogno che la famiglia aveva di lui, bisogno grave e urgente, Moro sapeva bene che trovavano immediata smentita nella situazione oggettiva della sua famiglia: ché di lui, della sua liberazione, del suo ritorno, aveva bisogno nella sfera degli affetti, non in quella patrimoniale e sociale».
Tuttavia nella lettera del 06/04/1978 indirizzata alla moglie Eleonora Chiavarelli egli sostiene di aver ricevuto "il nulla" in risposta dalla lettera al Segretario Dc, pur avendo ricordato «tra l'altro a Zaccagnini che egli mi volle (per i suoi comodi) a questo odiato incarico, sottraendomi alle cure del piccolo che presentivo di non dovere abbandonare».

- 20/04/1978 - Lettera a Benigno Zaccagnini
"Ricordi la mia fortissima resistenza soprattutto per le ragioni di famiglia a tutti note. Poi mi piegai, come sempre, alla volontà del Partito". E qui non si scappa: non può trattarsi della famiglia affettiva in quanto è impensabile che a "tutti" fossero note questioni familiari private: mentre eventuali questioni di loggia potevano essere note alla ristretta cerchia di fratelli. Poi continua: "Il tuo si o il tuo no sono decisivi. Ma sai pure che, se mi togli alla famiglia, l’hai voluto due volte". Anche in questa occasione viene difficile pensare che Zaccagnini lo abbia "tolto" alla sua famiglia naturale. Se ne ricava che Benito Zaccagnini fosse un interlocutore particolare, legato a Moro da legami specifici.

- 28/04/1978 - Lettera a Giulio Andreotti
"Che Iddio t’illumini e benedica e ti faccia tramite dell’unica cosa che conti per me, non la carriera cioè, ma la famiglia". L’accostamento alla "carriera" non lascia dubbi.

- 28/04/1978 - Lettera ad Amintore Fanfani (presidente del Senato)
"Onorevole Presidente del Senato, in questo momento estremamente difficile, ritengo mio diritto e dovere, come membro del Parlamento italiano, di rivolgermi a Lei che ne è, insieme con il Presidente della Camera, il supremo custode. Lo faccio nello spirito di tanti anni di colleganza parlamentare, per scongiurarla di adoperarsi, nei modi più opportuni, affinché sia avviata, con le adeguate garanzie, un’equa trattativa umanitaria, che consenta di procedere ad uno scambio di prigionieri politici ed a me di tornare in seno alla famiglia che ha grave ed urgente bisogno di me".

- 28/04/1978 - Lettera a Pietro Ingrao (presidente della Camera)
"… affinché sia avviata, con le adeguate garanzie, un’equa trattativa umanitaria, che consenta di procedere ad uno scambio di prigionieri politici ed a me di tornare in seno alla famiglia che ha grave ed urgente bisogno di me". Pure in questa occasione sembra strano un appello per il ritorno alla propria famiglia affettiva, mentre appare piuttosto come un'esortazione ad un ambiente che proprio in quella drammatica situazione di massima emergenza avrebbe "grave ed urgente bisogno di me". Tuttavia lascia ampi margini di dubbio l'accostamento del comunista Pietro Ingrao, a quei tempi presidente della Camera dei deputati, ad una fratellanza di vertice. A meno che anche "compagni di livello" fossero inseriti in famiglie di fratelli coperti: condizione che farebbe meglio comprendere le manovre che portarono nel 1978 i comunisti fin alla soglia del governo nazionale e poi, successivamente, ai vertici dell'amministrazione pubblica italiana.

- 28/04/1978 - Lettera a Giovanni Leone (presidente della Repubblica)
"...voglia rendere possibile un’equa e umanitaria trattativa per scambio di prigionieri politici, la quale mi consenta di essere restituito alla famiglia, che ha grave e urgente bisogno di me".

- 29/04/1978 - Lettera ad Erminio Pennacchini
"Grazie per quanto dirai e farai secondo verità. La famiglia ed io, in tanta parte, dipendiamo da te, dalla tua onestà e pacatezza". Non si comprende come faccia la famiglia originaria di Moro a dipendere da Pennacchini.

     Certo che non è facile dalle parole di Moro capire quando parla della famiglia naturale, e quando si rivolge ad altra famiglia. Forse tale indeterminazione è stata da lui voluta per non destare sospetti, dopo che si era ben scoperto nella prima lettera a Cossiga, credendo che sarebbe rimasta segreta.
     L’impressione ricavata è che Andreotti, Zaccagnini, Pennacchini, Cossiga, Leone, siano come stati legati da Moro con un unico filo dove il termine "famiglia" utilizzato non per identificare la propria famiglia fa da collante per quell’"inimitabile gruppo dirigente" sfuggitogli dalla penna in un momento di sconforto. Il fatto che neanche in punto di morte abbia voluto giocare la carta della delazione, se da una parte potrebbe essere stata da lui considerata addirittura controproducente, dall’altra fa capire la tenacia dei legami in quello che potrebbe essere stato un tipo di fratellanza segreta.
     Ciò che realmente meraviglia di questo aspetto codificato della testimonianza di Aldo Moro è che, nel caso fosse vera l'intuizione sui messaggi alla P1, nessuno mai in questi oltre quarant'anni dagli eventi abbia sentito rimorso, rivelando quanto realmente accaduto. Anzi, a testimonianza di un paese ormai sottomesso a tutti i livelli agli ordini oscuri di personaggi ammantati impropriamente di esoterismo massonico, i testi, i filmati, le trasmissioni televisive, fanno di tutto per eludere il vero dramma di cui si rese perfettamente conto lo sfortunato presidente Dc: che a decidere la sua condanna a morte furono i suoi fratelli di loggia, servendosi per ucciderlo del Partito armato delle Brigate Rosse.


di Giovanni Corrao - 17/11/2021



La bolla di fondazione della loggia massonica segreta "Propaganda 1"




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