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Negli ultimi anni l'astensione elettorale è diventata il vero, grande protagonista delle consultazioni. Non si tratta più di un semplice indicatore statistico: è un segnale politico, sempre più evidente, di una frattura profonda tra il corpo elettorale e le istituzioni che dovrebbero rappresentarlo. Una parte crescente di cittadini non ritiene più utile recarsi alle urne. Non perché manchi l’interesse per la cosa pubblica, ma perché — più o meno istintivamente — molti percepiscono che la scelta tra un candidato o l’altro non modifica la sostanza dei processi decisionali. Cambiano i manifesti, cambiano i toni, cambiano i simboli; ma le decisioni ultime sembrano seguire binari già tracciati altrove. La sensazione, quasi epidermica, è che i governi si succedono senza incidere realmente sui centri effettivi del potere. Si ha l’impressione che il vero ago della bilancia non risieda nei programmi elettorali, ma in un’unica struttura sovra-politica, capace di indirizzare in modo silenzioso e trasversale tanto gli esecutivi quanto i legislatori. È un tema delicato, su cui nessun partito ama soffermarsi. Eppure molti cittadini intuiscono che per arrivare in alto occorre appartenere a determinati circuiti di influenza, e che una volta arrivati, quei circuiti presentino il conto: fedeltà, allineamento, talvolta perfino contributi economici più o meno espliciti. Non è necessario nominare queste strutture: è sufficiente osservare come, in troppi casi, la politica appaia vincolata, non autonoma, quasi costretta a eseguire direttive elaborate in sedi non trasparenti. Una sorta di “potere verticale” che non compare sulle schede elettorali, ma che molti percepiscono dietro ogni decisione cruciale. In questo quadro, colpisce un altro aspetto: alcune forze politiche (forse in nome e per conto) rivendicano apertamente la trattenuta di una parte dello stipendio dei propri eletti, come contributo obbligatorio. Una prassi che, per qualsiasi datore di lavoro privato, equivarrebbe a una gravissima violazione di legge. Perché due pesi e due misure? Perché ciò che sarebbe illecito per un cittadino, diventa accettabile — perfino nobilitato — quando praticato nel circuito politico? L’opinione pubblica non sempre possiede gli strumenti cognitivi per rispondere, ma coglie l’incongruenza. E questa incongruenza alimenta ulteriormente la percezione di un sistema chiuso, dove il voto incide sempre meno e l’appartenenza a certe reti incide sempre più. Siamo in presenza di una democrazia che si restringe. L’astensione crescente non è solo un dato sociale: è un segnale d’allarme istituzionale. Quando metà o più del corpo elettorale ritiene inutile esprimersi, la sovranità popolare — che dovrebbe essere il fondamento della Repubblica — si indebolisce. E quando la democrazia si indebolisce, inevitabilmente si rafforzano le forme di potere che non dipendono dal consenso, le stesse che da sempre preferiscono lavorare in riservatezza, con spazi di manovra più ampi possibile. Ma questo processo ha una conseguenza che molti non considerano: anche i poteri che prosperano nell’ombra hanno bisogno di una ampia democrazia funzionante per esercitare la loro influenza senza essere travolti, ottenendo il massimo dei benefici. Una democrazia debole, infatti, apre la strada a forme di governo più rigide, più verticali, meno tolleranti verso l’autonomia di qualunque organizzazione parallela. È il principio per cui nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma: quando il sistema istituzionale democratico si riduce, anche i “poteri laterali occulti” perdono spazio vitale. Vi è dunque il rischio di un ritorno al verticismo, in un certo senso anche fomentato dalla forma politica di centro-destra attualmente al governo. Oggi si intravvede, sullo sfondo, una possibile evoluzione verso modelli più centralizzati. Non ancora autoritari, ma certamente più stringenti, meno permeabili alle mediazioni, meno favorevoli a quelle zone grigie in cui certi organismi non-elettivi hanno tradizionalmente costruito la loro forza. Un paese in cui vota solo una minoranza è un paese in cui diventa facile invocare “l’efficienza”, “la stabilità”, “la decisione rapida”. E ogni volta che un popolo rinuncia al voto, qualcun altro si prepara a occuparne il posto. Viene naturale, allora, un appello implicito ai poteri non dichiarati. Chi opera in circuiti di influenza extrapartitici dovrebbe essere il primo a cogliere il rischio. Perché la loro stessa forza si fonda sulla porosità della democrazia, sul fatto che il Parlamento esista, che gli eletti siano tanti, che gli equilibri siano mobili e modellabili: che vi siano ampi spazi subliminali per operare senza essere visti. Se la democrazia si restringe, si restringe anche la loro libertà d’azione. E forse proprio a loro — senza nominarli — vale la pena rivolgere un messaggio: sostenere la partecipazione popolare conviene a tutti, anche a chi crede di poter agire al di sopra della politica. Se il cittadino rinuncia al voto, l’intero edificio della Repubblica si inclina. E quando la struttura demoratica repubblicana traballa, nessuno — né visibile, né invisibile — è davvero al sicuro. Mussolini insegna!
di Giovanni Corrao - 29/11/2025
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