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In memoria di Titino Melis nel quarantesimo della morte

Il sentimento d’Italia dei sardisti d’un tempo. Come a dire, democrazia e giustizia

     Ci è sfilato sotto gli occhi il 2015 e non abbiamo trovato il tempo giusto per onorare le memorie nostre di democrazia sardista nell’albero repubblicano, quello di Mazzini e Cattaneo. E chissà dove andrà il Partito Sardo ora con nuova guida politica – del gruppo dirigente io guardo con speciale riguardo a Giovanni Columbu – dopo la lunga, lunghissima, ingrata, avvilente notte della presidenza di Giacomo Sanna. Non so quanto in Columbu, figlio di tanta madre Simonetta e tanto padre Michele, nipote di tanto nonno Dino Giacobbe combattente per la libertà sul fronte spagnolo e nella opposizione interna, e di tanta nonna Graziella Sechi eroina segreta e poi manifesta, rimanga, come elemento creativo del nuovo sardismo del Duemila, sia nella vena nazionalitaria paterna sia in quella socialista universalista GL dei Giacobbe, né so come egli intenda modellare in sintesi i due filoni, o voglia arricchire il patrimonio con gli innesti delle sue esperienze di vita ed intellettuali ed artistiche. Gli è che io sento il sardismo come una malattia virtuosa e non me ne so liberare. Così da ragazzo. Ho amato il sardismo, l’ispirazione sardista, più ancora forse del mio partito, quello azionista-repubblicano, lamalfiano, dalla cui cultura risorgimentale, democratica ed antifascista ho sentito derivare, pur con tutte le sue peculiarità, il Partito Sardo del primo dopoguerra ed europeista anch’esso con Mazzini nel cuore, padre della Repubblica anch’esso, il Partito Sardo dei costituenti Lussu e Mastino, dopo la testimonianza valorosa nei quadri di Giustizia e Libertà al tempo della dittatura. Malato di sardismo – del sardismo d’un tempo –, forse non voglio guarirne, anche se so, credo lucidamente, che non avremo più, dopo tutte le deviazioni e retrocessioni indipendentiste, il sardismo che ha formato le coscienze politiche e la testimonianza storica, intellettuale e civile di un Emilio Lussu, di un Anselmo Contu, di un Camillo Bellieni, dei grandi insomma dei quali avremmo dovuto ricordarci, come in un sol blocco ideale-culturale, nel quarantesimo della morte. Ricorrenza alla cui vigilia ci troviamo adesso anche per Giovanni Battista – Titino – Melis.
uno dei libri di Gianfranco Murtas su Titino Melis, ed. Eidos      Perché c’è davvero una malinconica concentrazione di anniversari che definirei “infaustamente giubilari” in questi mesi, fra il marzo dello scorso 2015, il dicembre passato ora è soltanto qualche mese, e questo 6 luglio 2016, fra la scomparsa del cavaliere “dei rossomori” e quella del cavaliere “senza macchia e senza paura”. Ho trovato casualmente, giusto l’altro ieri, un mio libro intitolato proprio così e riportante gli (allora inediti) appunti autobiografici di Titino Melis, nello scaffale delle “novità” alla MEM, sezione archivio storico. Con quella copertina allusiva, come in altre mie copertine dedicate agli uomini del sardismo, alla fraternità gemellare delle bandiere, il tricolore del risorgimento e della repubblica, i quattro mori del sentimento regionale, patriottico anch’esso. “Cavaliere” era la parola chiave. Cavaliere dei rossomori, del sardismo rimasto incorrotto e anzi audace, vigoroso e vittorioso coprotagonista della battaglia antifascista e repubblicana, Emilio Lussu; cavaliere anche Titino, lui nel più dimesso quotidiano, che comunque non lo salvò, 23enne, dal carcere patito insieme con Ugo La Malfa siciliano 25enne, in quel 1928, implicato (e implicati) nella trama della cosiddetta Giovane Italia costruita nella clandestinità di Milano. Dove Titino s’era impiegato come istitutore nel convitto Longone, studente-lavoratore. “Cavaliere”. E penso all’imbarbarimento di questa parola quando la cosiddetta politica, e le istituzioni, l’hanno associata per quanto lungo tempo! a chi, pur cavaliere per nomina amministrativa, non aveva in sé, al contrario degli antichi cavalieri, un grammo di senso dello stato e d’amore alla verità, senza cui cade ogni rispetto per il popolo. Riscuotendo invece, da noi come a Roma, dico anche (… nazionalitariamente) a Cagliari e a Porto Rotondo (villa con approdi barcaderi fuori norma per la sicurezza!), il cavaliere incipriato, malaugurato sostegno degli indipendentisti con bandiera autoctona, in questo rimasuglio di notte nera delle idealità. (La sofferenza di questi giorni per la sua malattia e l’operazione al cuore, circostanza che ne strappa la simpatia, non può annullare la memoria delle cose, perché è stato lo spirito pubblico ad esserne stato corrotto dal 1994)
uno dei libri di Gianfranco Murtas su Titino Melis, ed. Eidos      Quando ho pubblicato le memorie inedite di Giovanni Battista Melis, ho recuperato quel titolo che a Titino era stato assegnato da Lussu. “Senza macchia e senza paura”, Titino, una generosità personale ai confini della pura oblazione per la missione. Le carte che ho studiato di lui – molte centinaia –, quelle che ho raccolto e pubblicato – come tutti i suoi discorsi parlamentari di due legislature (dieci anni), quegli altri tenuti in Consiglio regionale o in quello comunale di Cagliari, o ai congressi del PSd’A o del PRI, quelle altre che ho raccolto dalla famiglia (da Elena e Ottavia e anche da Mario, a Nuoro), e da Salvatore Cubeddu che ne ha offerto ampia rassegna anche lui nei suoi corposi saggi usciti per i tipi della Edes, lo rappresentano nella sua statura che, mi permetto di aggiungere, quasi era sdoppiabile: perché al valore dato e toccato, pesato e misurato, universalmente ammirato, sembrava accompagnarsi quello potenziale, dell’inespresso cioè, che in altre condizioni avrebbero dato onore e soddisfazione a lui e ai suoi, oltre che alla democrazia italiana
     Voglio e debbo essere più chiaro: credo che soltanto alcune circostanze (soggettive e d’ambiente), in concorso fra loro, abbiano impedito a Giovanni Battista Melis di costituire, negli anni ’60, quelli cioè della prima stagione del centro-sinistra e dei tentativi di programmazione economica in linea di correzione dello sviluppo distorto del decennio precedente, l’asso politicamente più originale dell’area progressista non socialista. Perché in una stagione, pur contraddittoria, di riforme o di impostazione di una politica riformatrice, non riformista, così in economia come nelle istituzioni – al 1970 risale l’esordio del regionalismo già prefigurato alla Costituente –, segnata dal raccordo fra la politica di programmazione nazionale e quella regionale di attuazione della Rinascita, la identità sardista e l’autorevolezza parlamentare del direttore del PSd’A potevano rappresentare la novità eccellente di un laboratorio assurto a modello per la politica generale.
     Egli era stato eletto deputato con una base elettorale sardista prossima ai 30mila voti e, per far scattare il quorum del seggio di quella IV legislatura repubblicana, anche con una indispensabile contribuzione dei suffragi repubblicani, mazziniano-lamalfiani, della Campania e della Puglia, del Piemonte, della Lombardia e della Toscana, della Calabria e della Liguria, del Trentino, del Friuli e dell’Abruzzo, dell’Emilia e del Lazio… La militanza e l’opinione del continente, dico la militanza e l’opinione fedeli alle idealità laiche e democratiche, erano allora confluite, grazie a un virtuoso meccanismo elettorale, a sostenere il miglior candidato del PSd’A, costituzionalmente divenuto rappresentante dell’intera nazione, dell’Italia patria comune. S’era ripetuto, in quel 1963, e sia pure in forme diverse, quanto s’era tentato, da parte dei sardisti, nel 1958 con l’apparentamento olivettiano, quando i diciassette numeri de “Il Solco” e quello speciale, bellissimo, di “Sardegna italiana”, diretto da Michele Columbu (allora ancora residente e professore a Milano), avevano delineato una sorta di piattaforma dialogica fra i sardi di Sardegna e quelli portati dalle occasioni della vita a guadagnarsi il pane lavorando tanto più nelle grandi città del nord. Fatti tutti carichi di una responsabilità nazionale, per la democrazia e la equità sociale nella crescente modernizzazione.
     S’era parlato allora di un ufficio di sottosegretario, forse alla Cassa per il Mezzogiorno, a Titino Melis. I numeri del gruppo repubblicano – cinque deputati in tutto a Montecitorio, e due senatori – non consentirono questo, e il direttore sardista onorò comunque il mandato spendendosi in molti campi della responsabilità nazionale, molto oltre lo stretto interesse isolano. Per concludere, all’inverso, ogni discorso riguardante la Sardegna, con l’appello all’aula in favore della “unità vera della patria” – testuale – ed il sostegno della nobile invocazione affidato alla nota, passionale espressione “con cuore di sardo e d’italiano…”.
     Io credo che quell’incarico governativo, se ci fosse stato, avrebbe fatto la differenza. Non per il cadreghino, verso cui un uomo della statura di Giovanni Battista Melis non avrebbe avuto alcuna debolezza, ma per la chiamata ad un ufficio operativo nazionale proprio di un esponente del PSd’A, cioè di un partito regionale. La cosa avrebbe determinato certamente una più avanzata sintesi della doppia sensibilità, e della doppia responsabilità, regionale e nazionale, del sardismo iscritto nel libro magno della democrazia italiana e della repubblica costituzionale. Con quanti altri processi evolutivi e modernizzatori della cultura politica sarda e italiana sarebbe anche difficile immaginare…
     Si pensi a questo riportando la memoria alle decisioni politiche del 1945, quando – entrando in quota azionista – i sardisti furono i soli rappresentanti di una forza di estrazione regionale chiamati a ricoprire funzioni tanto nel governo – con Mastino sottosegretario al Tesoro nei governi Parri e primo De Gasperi – e nella Consulta nazionale – allora con Luigi Battista Puggioni.
     Si pensi a quanto recupero, nel fare governativo possibile nella metà degli anni ‘60, ci sarebbe potuto essere della progettualità del sardismo dei primi anni ’20, quello volto – attraverso la formula del cosiddetto Partito Italiano d’Azione – a federare i partiti regionali non soltanto per spingere a una politica di sviluppo della dignità rurale, ma per introdurre nell’ordinamento dello Stato elementi di riforma a favore della devoluzione politico-amministrativa ai territori.
uno dei libri di Gianfranco Murtas su Titino Melis, ed. Eidos      Si consumò quella IV legislatura, centrale nella storia di questi settant’anni repubblicani, nella incompiutezza e nelle delusioni, anzi nelle frustrazioni. Perché concorrenze elettorali, pur comprensibili e tutte legittime, interne al PSd’A, una certa mortificazione della dialettica fra le diverse anime del partito e la suadenza tentatrice, tutta letteraria ma ideologicamente depistante, del nazionalitarismo introdotto, con cuore gentile, da Antonio Simon Mossa a partire dal Sassarese, compromisero, anzi soffocarono nel contingente una grande prospettiva riformatrice italiana impostata sul regionalismo. E il Partito Sardo d’Azione fattosi in progress una specie di Fronte di Liberazione Nazionale contro l’occupante italiano, per darsi un domani in queste stesse vesti, e con la bandiera, al miliardario della bandana, mutò non soltanto pelle, ma sostanza di muscoli e nervi, ossa e vasi… Ne rimase ancora, del vecchio onorato sardismo, negli anni ’80, al tempo della prestigiosa presidenza di Mario Melis, ma il più nell’elettorato e nella militanza, via via anche nella dirigenza diceva tutt’altro, diceva ormai di convergenze nuove non dettate dall’adesione ideale e valoriale, ma dalla scommessa emotiva, dalla protesta e anche, talvolta, dal trasformismo opportunista. Tanto che poi si sono trovati alcuni già convertiti nazionalitari che, delusi in replay e però anche privi del senso del ridicolo semantico, sono diventati tifosi di Forza Italia, mentre la nuova improvvisata dirigenza non ha provato schifo a incasellare i Quattro Mori fra i simboli degli ex fascisti e dei berlusconiani imbrillantinati.
     Personalità molto diverse fra di loro, anche per un vissuto che ne distingueva i percorsi esistenziali e di esperienza, Contu – il presidente anticipatore, ventenne, del circolo della Giovane Sardegna, e Bellieni il sardo-salveminiano (che risiedendo a Napoli aveva confidato all’inviato dell’ “Unione Sarda”, quasi alla vigilia della sua morte, di votare per l’Edera repubblicana) – e Titino Melis ovviamente, con ancor più marcate originalità, lasciarono il loro nome in eredità ai posteri, nel biennio 1975-1976. Fu come se la loro dipartita avesse chiuso un ciclo storico del sardismo.
     Vorrei riprendere da questo punto una riflessione, certo soggettiva e potrà anche dirsi parziale, sulla storia recente del sardismo. Ancor più coinvolgendo, per il proprio specifico, Anselmo Contu primo presidente dell’Assemblea regionale nel 1949, e Bellieni sì il combattente medagliato ma anche lo storico, il teorico, l’autore di quella bellissima notissima (?) lettera, da Sassari, agli “amici cagliaritani”, nel dicembre 1920.
     Ora per celebrare tutti – il Contu arrestato con altri sardisti e il repubblicano Michele Saba nell’autunno 1930, vittima anch’egli della retata agli aderenti alla rete di Giustizia e Libertà e galeotto per alcuni mesi a Regina Coeli, il Bellieni delle prime collaborazioni a “Volontà” di Vincenzo Torraca e alla “Critica Politica” del repubblicano Oliviero Zuccarini così come della tremenda corrispondenza antifascista del 1923 per scongiurare l’adesione sardista al PNF – ritorno a Titino Melis, presentando o ripresentando alcune pagine preziose che potei pubblicare anni addietro, nel quadro del lavoro biografico sul vecchio leader e parlamentare.
     Coinvolsi in quella stagione – direi che furono tutti gli anni ’90 del secolo scorso – i familiari dell’onorevole Melis, partendo dalle carissime Elena ed Ottavia, e però anche Pietro e Pasquale, e naturalmente Mario.
     Non potrei non associare oggi, nella memoria di Titino Melis, anche quella delle sorelle e del presidente, con cui ebbi la fortuna di costruire un certo sodalizio anche umano per me esaltante.
     Tutti parteciparono con documenti e testimonianze, ed Elena e Mario anche con scritti originali, alle mie ricerche e pubblicazioni.
     Mi limito qui a richiamare due contributi, due soltanto dei molti della preside amatissima a Nuoro. Quelli che si dispose ad offrirmi, a richiesta, sulla figura del fratello maggiore e della famiglia – sullo sfondo il padre, maresciallo Giuseppe Melis, pater familias ed educatore, e la madre Michelina Corrias, i fratelli e le sorelle, il mito lussiano com’era vissuto in casa…
     I testi, proposte con altri, in ultimo, sul sito di Fondazione Sardinia, sono recuperati dal mio volume Titino, i Melis, la Sardegna, uscito nel 2004 per i tipi della Edes di Sassari, volume che si offriva come antologia dei tanti scritti da me raccolti o curati e pubblicati nel decennio precedente, nel quadro delle ricerche sul sardo-Azionismo. L’opera dette spunto ad una memorabile serata che spendemmo, con una straordinaria e forse irripetibile goduria morale e sentimentale, nella sala cine-teatrale di Sant’Eulalia generosamente offertaci dal parroco don Mario Cugusi. Protagonista ne fu, accompagnato da Salvatore Cubeddu e Giancarlo Ghirra, il professor Michele Columbu.


Una piazza, un compendio culturale per Titino, ma anche per Ugo La Malfa

     Aggiungo in extremis, ancora una volta, l’invito alla Amministrazione civica di Cagliari a sciogliere il suo debito con la memoria di Giovanni Battista Melis, e con la sua, per ragioni tante volte illustrate e documentate, di Ugo La Malfa. Le circostanze della storia democratica italiana – le celle di San Vittore per la testimonianza antifascista, le relazioni partitiche e i seggi parlamentari, i palchi dei comizi e le delibere di governo negli anni ’60 e anche prima – affratellarono i due leader, il siciliano e il sardo. Dovrà pur trovarsi uno spazio degno in città da intitolare loro, se non una strada o una piazza, una sala di cultura o altro compendio.


Elena Melis: «Quella mattina a Baunei»

     Era la primavera del 1928 ed io, sesta della serie, frequentavo come “auditrice” la V elementare in attesa di essere chiamata a Cagliari da mio fratello Pietro per essere preparata in privato ad affrontare gli esami di licenza del ginnasio inferiore, come già era accaduto col fratello di me più grande e come sarebbe successivamente avvenuto con i due fratelli più giovani.
     Indubbie difficoltà, ma anche scuola primaria ineguagliabile di splendida solidarietà delle famiglie numerose!
     Nella sessione autunnale dell’anno precedente, a 23 anni, si era laureato in leggi, a Milano, il primogenito Giovanni Battista, Giobatta per gli amici, Titino per i familiari, il quale dopo aver ottemperato al servizio militare a Padova, per una esigenza di maggiori aperture e di più vaste esperienze culturali e politiche a contatto con un contesto europeo, si era trasferito da Cagliari nella capitale lombarda dove si manteneva agli studi facendo l’istitutore presso il collegio “Longone” di cui era direttore Fernando Saragat di Sanluri.
     A metà aprile, credo, mentre Titino trascorreva in famiglia un periodo di riposo, accadde che una mattina, piuttosto per tempo, due signori bussarono alla porta di casa chiedendo di lui. Mia madre, poiché avevano un accento continentale, pensò fossero due amici milanesi, li accolse premurosamente e, in attesa che Titino finisse di prepararsi, chiese loro se avrebbero gradito un caffè. Grande però fu il suo sconcerto quando i due strani ospiti, senza por tempo in mezzo, imboccarono la scala che portava al piano superiore dove erano le camere da letto, esclamando: «non occorre che faccia tanta toeletta!». Frugarono dappertutto senza trovare nulla che in qualche modo potesse interessare la pubblica sicurezza e i due se ne andarono lasciando interdetta la famiglia.
     A questo specifico episodio è legato un ricordo, ancora vivissimo, come del resto tutto ciò che accadde nei mesi successivi.
     Mia madre, mentre i due agenti si trovavano nella stanza di mio fratello, intuendo un pericolo di cui era del tutto ignara, in un istintivo gesto di difesa aprì il primo cassetto del comò della sua camera, (dove erano custoditi documenti di nessun conto insieme ad alcune lettere dei figli lontani) e, guardandomi con una espressione seria e come smarrita senza dirmi niente, infilò tutto nella cartella che già tenevo a tracolla per andare a scuola.
     Lungo strada non corsi come al solito, né mi attardai a giocare al rientro ma, come investita di una responsabilità di cui nulla potevo capire, tenni gelosamente stretta a me la borsa per tutta la mattina, senza lasciarla un solo istante.
     Come una nuvola che si fosse fermata per un momento nel terso cielo familiare, essa fu spazzata via e, con rinnovata fiducia nella giustizia, tornarono a levarsi i cori armoniosi e bellissimi dei fratelli maggiori, che sono sempre stati una caratteristica della vita familiare.
     Ma la nuvola covava un temporale e preludeva una tempesta che, dopo breve tempo, si abbatté improvvisa e terribile sulla casa. Anche qui mi soccorre un ricordo preciso che percepisco come sensazione dolorosa, quasi intollerabile.
     Nel cuore della notte fui svegliata da una insolita animazione della casa su cui dominava il rombo di un motore che a tratti scattava, taceva, per poi riprendere rabbioso e ostinato.
     Ancora insonnolita, scesi al piano sottostante dove vidi alcuni carabinieri, i miei genitori, Titino, le sorelle con gli occhi arrossati, mentre qualcuno fuori si affannava a far andar il motore di una macchina che solo dopo reiterati tentativi e dopo aver lacerato ripetutamente il silenzio della notte e la quiete del piccolo paese, finalmente fu avviato.
     Qualcuno mi ricondusse a letto e solo la mattina mi resi conto che doveva essere accaduto qualcosa di molto grave. Non c’era più Titino né i genitori e la casa sembrava avvolta da un’ombra dolorosa dove più non si cantava, non si rideva e persino la luce intensa era discretamente tenuta fuori, e le persone amiche apparivano tristi anch’esse, come se tutti fossero increduli e avessero bisogno di essere confortati, non solo i familiari.
     In quella notte senza fine era accaduto qualcosa di imprevedibile, che si era abbattuto sulla famiglia come la folgore che schianta: era stato arrestato il primogenito, orgoglio e speranza dei genitori ai quali, per la fiducia e la considerazione di cui godeva nostro padre, ad evitare che il figlio venisse portato via in manette alla luce del giorno, esposto alla curiosità e agli interrogativi dei paesani, era stato consentito di noleggiare una macchina privata – fatta venire da Dorgali – con la quale, ormai sul far dell’alba, erano partiti, tutti insieme, per Nuoro.
     Il vuoto terribile apertosi improvvisamente nella famiglia, da quanto mi pareva di percepire, avrebbe dovuto essere solo momentaneo e tutti attendevano con impazienza il pullman del giorno successivo col quale, si era certi, chiarito l’equivoco presso la Questura di Nuoro, sarebbero rientrati tutti e tre.
     Ma quando l’autobus giunse sul far della sera, a noi che attendevamo con fiduciosa speranza il ritorno dei genitori e del fratello, più implacabile di una sentenza, apparve dietro il vetro solo il volto doloroso di una madre come devastato da una pena la cui origine appariva tanto ingiusta quanto incomprensibile.
     Mentre Titino veniva tradotto a Milano e rinchiuso nel carcere di “San Vittore”, nostro padre insieme al padre di Flavio Batzella, compagno di studi e amico carissimo di Titino, arrestato a sua volta e nello stesso giorno, a Milano, erano partiti per Roma sperando di conoscere, almeno lì, le ragioni di un così grave provvedimento e magari tornare indietro con i figli.
     Giorno dopo giorno e per ore infinite, nella più affettuosa solidarietà e comprensione della gente, ivi compresi i carabinieri della locale stazione che più di una volta, coinvolti nel nostro dolore, piansero con noi, vivemmo un periodo di intensa passione e di buio impenetrabile poiché non si sapeva di che cosa nostro fratello fosse stato accusato, e il Tribunale Speciale incuteva terrore perché era al di fuori della legge e della giustizia.
     Quanto tempo passò? Circa due mesi, credo, ma nel ricordo è rimasto un tempo senza fine che lasciò tracce profonde in ciascuno dei componenti il nucleo famigliare, rubando ai piccoli la spensieratezza dell’età e mettendo tutti, amici e conoscenti compresi, da un momento all’altro, davanti ad una realtà politica di cui molti non avevano ancora avuto chiara percezione.
     Ma ecco giungere un giorno, inaspettato e pur tanto atteso, un telegramma spedito da Milano a firma «Titino Flavio» che, come lo squillo delle campane a Pasqua, annunziava: «... e quindi uscimmo a rivedere le stelle!» e il sole tornò ad irrompere nella casa, attraverso le finestre spalancate.
     Come liberati da un incubo, tutti ci lasciammo andare ad una grande gioia fra il generale compiacimento di quanti avevano seguito con sincera partecipazione la nostra vicenda; ma l’altalenare della luce e del buio, della speranza e dello sconforto non erano finiti e, alla prima euforia, seguirono lunghi mesi avvolti in una sorta di nebbia che non lasciava distinguere i contorni del paesaggio e la linea dell’orizzonte perché a Titino, pur essendo stata riconosciuta priva di ogni fondamento l’accusa di aver preso parte all’attentato verificatosi il 12 aprile del 1928 a Milano (in occasione della visita del re per l’inaugurazione della fiera Campionaria), non fu consentito di spostarsi da Baunei, doveva rispettare orari, sottoporsi a controlli e non accompagnarsi ad estranei in quanto, a giudizio della polizia politica, era «elemento pericoloso all’ordine nazionale dello Stato».
     Credo non sia difficile immaginare che cosa siano stati quei lunghi interminabili mesi, e giorni, e ore, per la sua natura appassionata e fervida i cui orizzonti si erano ulteriormente allargati e arricchiti a Milano, a contatto con un eccezionale cenacolo culturale e politico di giovani intellettuali che pagando con l’esilio, col carcere, con pesanti limitazioni di varia natura, avrebbero tenuta accesa la fiaccola della libertà durante il ventennio fascista.
     Prigioniero ancora una volta, costretto a vivere in un paesino isolato, senza possibilità di incontri, di contatti, di scambi culturali, di prospettive, in un ozio forzato che mortificava ideali, energie, speranze, entusiasmo, esigenza di impegnarsi in varie direzioni, di lavorare subito, come aveva desiderato e come la situazione familiare avrebbe richiesto.
     Una volta esaurita anche questa difficile pagina del soggiorno obbligato, lasciò il paese per Nuoro dove fu accolto nello studio di due grandi avvocati, altrettanto noti per il loto antifascismo: Pietro Mastino e Sebastiano Puligheddu ed entrò in campo con tutte le sue energie integre, con tutto l’entusiasmo, la fede, la passione e la tenacia di cui può essere capace una creatura intelligente generosa e libera, impegnandosi con slancio e riconosciuta capacità nella professione, collaborando e donandosi con autentica abnegazione, ma come fatto naturale e scontato, alla crescita dei fratelli più giovani, spendendosi via via con lo stesso amore, e fino all’ultimo respiro, per la sua Sardegna che amò veramente sopra ogni cosa.
     La vita lo gratificò in ambito familiare con i fratelli a cui col suo rigore morale e la sua coerenza di vita fu “maestro e guida”, in campo professionale dove si distinse come ottimo umanissimo avvocato, nella vita politica in cui ebbe alti riconoscimenti, ma non gli risparmiò gravi dolori come la morte dell’unico adorato figlio la cui piccola bara (mi sembra importante dirlo perché indicativo non solo della grande amicizia che li legava tutti a mio fratello ma anche del meraviglioso ordito su cui era tessuto l’antifascismo nuorese) era stata portata a braccia da Pietro Mastino, Luigi Oggiano, Salvatore Mannironi, Filippo Satta-Galfrè, e in quella politica, dove non gli mancarono angustie, delusioni e grandi amarezze come accade a chi vive intensamente e senza riserve la fede degli ideali.
     Dopo elezioni andate male, si sentiva distrutto dal di dentro. Per darne la misura, riporto integralmente lo stralcio di una lettera emblematica e toccante, indirizzata a me in un momento di grande scoramento legato proprio alla situazione politica: «... se n’è andato il mio sogno di padre, è naufragata la mia passione politica, anche il vino di Oliena vivrà senza di me, rimane ancora qualcosa: un modesto avvocato e un uomo di cattiva educazione, di personalità presuntuosa e difficile. Ma una volta, nella nostra casa sull’Ortobene io con te e con Ottavia ci voglio stare. A guardar i nostri sogni dall’alto: sempre più in alto di noi».
     C’è tutto lui con i suoi profondi sentimenti, la sua sofferenza, e la cocente amarezza dovuta a tanti fattori: la scarsa percezione della generalità a cogliere nelle istanze sardiste il vero interesse del popolo sardo e l’importanza del momento storico che si stava vivendo; la “chiusura” dei vari partiti nazionali operanti nell’Isola a voler dare ai loro programmi una connotazione “sardista”, così da costituire una forza unitaria autorevole ed efficace, sulla linea dei problemi da prospettare e delle rivendicazioni da fare, capace di suscitare attenzione e volontà operativa nel governo centrale a Roma, distante anni luce dalla nostra secolare drammatica realtà, le enormi difficoltà di un glorioso ma piccolo partito quale il PSd’Az., privo di mezzi economici e di apparati, al centro di una lotta ingenerosa e impari, aggredito dal Centro, dalla Sinistra, dalla Destra e persino dalla Chiesa... Da tutto ciò un senso di impotenza, uno struggente bisogno di “demolirsi” e insieme quel suo volersi rifugiare nei “sogni”, che poi sono i suoi irrinunciabili ideali politici così difficili da raggiungere, ma, per lui, ragione stessa di vita... ma ogni volta, considerando un dovere la speranza, risorgeva dalle sue stesse ceneri e riprendeva con rinnovato impeto la lotta, e la sua voce che ricominciava a parlare di Sardegna, dei suoi annosi insoluti problemi, della sua sete di riscatto e di rinascita era familiare a tutti e sempre ascoltata con attenzione, interesse e simpatia.
     Ogni volta che ritorno col pensiero all’immediato dopoguerra, risento dentro di me la stessa sensazione: come una primavera dello spirito lungamente sognata ed improvvisamente esplosa in tutto simile a quelle primavere sarde che da un momento all’altro fanno vibrare di luce abbagliante i fianchi delle montagne col caldo sole e il giallo delle ginestre addolcendo graniti e lecci, e imbiancano di leziose pratoline i margini delle strade e accendono con i rossi papaveri incredibili distese di prati erbosi – e non perché la memoria ha cancellato la lunga dolorosa notte della guerra, le angosce spesso trasformate in lutti, di fratelli, di padri, di figli disseminati nei vari fronti dell’immane conflitto, o le città devastate, comunità intere distrutte e popolazioni incolpevoli travolte dalla furia bestiale di bombardamenti: le mille difficoltà di ogni giorno, la mancanza di tutto, la fame di molti, il miserando toccante spettacolo del soldato che bussava alla porta e con la testa bassa, senza nulla chiedere, attendeva che tu gli dessi un pezzo del tuo poco pane. Ché , anzi, da tutto ciò pareva nascesse la primavera di cui parlo, dalla sofferenza, dal sacrificio, dal dolore di milioni di persone che in tutto il mondo avevano reso possibile che dalla morte stessa nascesse la speranza, dalle tenebrose barbarie, quasi come un miracolo, emergessero valori positivi universali capaci di dare nuovo senso alla vita e un significato alla morte di quanti quelle vite avevano contribuito a rendere possibile.
     Era il tempo in cui ognuno cominciava a percepire il senso della libertà, i partiti iniziavano a prendere corpo attorno a piccoli nuclei di noti antifascisti e i giovani, per la prima volta, si affacciavano ad una stagione sconosciuta ed appassionante di una esperienza che avrebbe inciso più o meno profondamente sulla loro vita a seconda della sensibilità, della cultura, della apertura mentale. Naturalmente io ho vissuto con particolare intensità questo momento magico.
     Assai popolare nell’Isola, dove conosceva tutti per generazioni e tutti lo conoscevano e gli volevano bene andando sempre al fondo del suo carattere impulsivo, non sempre facile quindi e magari scomodo, ma sempre sincero, generoso e amico, era però conosciutissimo anche a Montecitorio dai deputati di tutte le parti politiche, come ebbi a constatare di persona durante un viaggio in treno per il nord Italia, allorché l’on. Lelio Basso (il cui nome mi era rimasto nella memoria fin dall’adolescenza legato al periodo milanese insieme a quelli di Bauer, Paggi, La Malfa, Gobetti, Gramsci...), incuriosito dalla mia grande somiglianza con mio fratello, si avvicinò interpellandomi e, in un momento, i numerosi deputati che si trovavano nel vagone vennero a salutarci e ci fecero festa esprimendo simpatia e molto apprezzamento per il “solitario” deputato sardista che con le sue severe coraggiose denunce nei confronti del potere centrale, riusciva a “riscaldare” il clima troppo spesso freddo e distratto dell’aula di Montecitorio tenendo al loro posto moltissimi colleghi che si fermavano ad ascoltarlo affascinati e conquistati dalle appassionate argomentazioni che, con amore di figlio e intransigenza di giudice, chiedevano attenzione, dignità, giustizia per il popolo sardo e per quanti, in Italia e nel mondo, si trovavano a vivere, “umiliati e offesi”, in condizioni di subalternità.
     Un altro ricordo legato alla diffusa popolarità che mio fratello aveva fra la gente, risale agli anni ’50 ed è collegato ad un mio viaggio in Svizzera.
     Mi trovavo con degli amici davanti allo spettacolo delle cascate di Sciaffusa quando la mia attenzione cadde su un gruppo di giovani, poco distanti da noi, che guardava insistentemente dalla nostra parte e ammiccava quasi a riconoscere una persona nota; uno si staccò dagli altri, si avvicinò a me e mi chiese se non fossi sorella di Titino Melis. Avutane risposta affermativa, alzò le braccia in segno di giubilo e tutti mi si affollarono intorno a salutare in me, più che un amico, il simbolo stesso della piccola patria dolorosamente lontana ma profondamente viva in ciascuno di loro. Erano un gruppo di giovani emigrati di Tresnuraghes.
     Sempre fuori della Sardegna (nell’Isola infatti questo accadeva ad ogni pie’ sospinto e ancora accade), trovandomi alla stazione di Venezia, un signore che aveva preso a guardarmi con insistenza, si avvicinò e mi chiese se non fossi sorella di Giobatta. Era un certo dott. Scano; sposatosi e trasferitosi nel Veneto, che aveva però sempre l’Isola nel cuore e aveva in Titino un punto di riferimento non solo per il passato – aveva fatto a sua volta parte della Giovane Sardegna – ma per quello che rappresentava al momento.
     Fra le molte tessere della vita politica di mio fratello ho scelto di soffermarmi in modo particolare su quella che mi riporta più lontano nel tempo, non solo perché mi ha segnato fortemente, ma perché è tappa importante di una lunga fervida militanza politica durate cinquantacinque anni (1921-1976) sempre sulla stessa linea, con la stessa tensione morale, con la mente e col cuore rivolti allo stesso obiettivo.
     Tutto ciò è ampiamente comprovato dallo straordinario ricordo che ha lasciato di sé nella gente, dalle persone culturalmente più preparate a quelle più umili, perché il suo linguaggio e il suo cuore arrivavano a tutti, ed è altresì efficacemente documentato in varie relazioni, in diversi convegni, nei numerosi importanti discorsi tenuti in Parlamento, nei Consigli regionale e comunale (Cagliari) nei quali denuncia e affronta instancabilmente, e fino all’ultimo, i problemi più disparati e le situazioni più dolenti della Sardegna, denunce che – i valori del Sardismo sono universali – non si chiudono nell’Isola ma, partendo dall’Isola, abbracciano il meridione d’Italia, si allargano all’Europa e ovunque imperino centralismo, soggezione, sottosviluppo, ingiustizia...
     Non so se il mio amore di sorella, pietra di un solido nuraghe cui, con felice significativa immagine, è stata paragaonata la famiglia per la naturale forte coesione che ne lega fra loro i membri anche in fatto di “sardità”, possa in qualche modo aver preso la mano non ai fatti, ma al sentimento.
     Credo di no.


Elena Melis: «Titino frade caru»

     Un ricordo legato alla memoria di Lussu risale alla mia infanzia, e si situa ad Oliena, allorché la famiglia si riuniva durante le vacanze estive. I tre fratelli più grandi giungevano da Cagliari a conclusione dell’anno scolastico, gli altri da Tortolì dove la malaria, specie d’estate, diventava un nemico implacabile.
     Nella parte più interna della casa materna vi era un grande magazzeno nel quale, di tempo in tempo, il piccolo drappello di fratelli – otto per la cronaca – si riuniva sotto la direzione del maggiore di essi, Giovanni Battista, per gridare con grande trasporto e fervore: «Viva Emilio Lussu – Viva il Partito Sardo d’Azione», «Viva la Sardegna», alternandoli al fatidico grido di «Forza Paris! ». Poteva sembrare un gioco e si dimostrò una vera scuola che non mancò di influire profondamente nella vita di ciascuno di quei ragazzi.
     E’ un ricordo quasi magico che mi è molto caro e che ho serbato gelosamente nella memoria.
     A cominciare da allora si andò delineando in me l’idea di un eroe straordinario, mitico, che cresceva con me e che spaziava più alto di tutti gli eroi che mi era dato di incontrare sui libri cosicché, quando finita la guerra si diffuse la notizia che Lussu era rientrato in Italia e sarebbe venuto in Sardegna, ne fui quasi sconvolta perché, nonostante sapessi di lui ciò che si poteva sapere, mi pareva impossibile che egli potesse scendere dell’Olimpo per mescolarsi ai mortali e che io avrei potuto vederlo.
     Ritengo che questo stato d’animo sia stato comune a molti giovani della mia generazione.
     Gli avvenimenti successivi – la lunga speranza delusa, tante prospettive di unità di popolo dolorosamente cadute – hanno fatto sì che la figura di Lussu si facesse per me più complessa, contraddittoria, e di quasi impenetrabile lettura.
     Un altro ricordo, anch’esso remoto relativo a Lussu, riguarda la madre. Ho sempre saputo del grande amore e quindi del grande tormento del figlio fuoriuscito, nei confronti della donna a cui era stato sottratto l’unico figlio, costringendolo all’espatrio e sulla quale il regime infieriva crudelmente circondandola di amara solitudine e di silenzio.
     In questa situazione mio fratello Titino, per alleviare in qualche modo la solitudine della madre e confortare il figlio, chiese ad una nostra cugina di Monserrato. Angelina Marini, che si era appena diplomata, di scegliere come sede di insegnamento Armungia, proprio per poter avvicinare la donna, darle il sostegno di una compagnia amica, e farle sentire che né lei né il figlio erano soli. Purtroppo la cosa non durò molto perché i gerarchi del capoluogo, informati delle visite della giovane maestra, la diffidarono costringendola al trasferimento.
     L’angoscia di Lussu nei confronti della situazione materna arrivò a tal punto di intollerabilità che un giorno, dopo aver acquistato un bellissimo mazzo di fiori, si recò in un cimitero di Parigi e lo depose davanti alla tomba di una sconosciuta quasi a sottrarre, con un emblematico disperato gesto d’amore, la propria madre alla morte civile cui il regime l’aveva condannata, liberi finalmente – madre e figlio – d’incontrarsi senza più intermediari né ambasce.
     Certo, il Lussu conosciuto più direttamente dalla mia generazione è quello del dopoguerra; il cavaliere dell’ideale che nel fango delle trincee, negli aridi altopiani del Carso era stato l’ “iniziatore” di una coscienza di popolo per i contadini, i pastori, gli artigiani di Sardegna, sarebbe tornato nell’isola a continuare la sua battaglia, questa volta con le armi della democrazia, con la forza della giustizia che doveva spezzare la soggezione, la sudditanza intollerabile della Sardegna verso lo Stato italiano. L’impazienza era pari alla lunga attesa ma Lussu, pur rientrato in Italia, non era volato subito in Sardegna come tutti speravano e si aspettavano; si fermò a Roma ponendo ai compagni di partito come anche alla gente comune, interrogativi le cui risposte non appagavano nessuno.
     E fu questo un primo punto di perplessità. Così pure, allorché l’on. De Gasperi propose al governo italiano la celebrazione di una messa di ringraziamento per la fine della guerra e tutti i partiti, compreso il Partito Comunista Italiano, per bocca del suo massimo esponente, Togliatti, aderirono senza riserve, egli solo si oppose sia pure per la preoccupazione, più volte manifestata anche con scritti, che un atteggiamento “clericale” dello Stato potesse scatenare nel Paese un anticlericalismo pedante e deteriore (Asino di Podrecca) finì per essere, sì, coerente con se stesso, ma non tenne conto, come sarebbe stato giusto, dello spirito religioso dei Sardi scatenando contro il PSd’Az. da una parte della gerarchia ecclesiastica per un verso, e della DC (particolarmente interessata) per l’altro, una accanita quanto ingenerosa e ipocrita campagna strumentale e denigratoria contra Deus che costò sofferenza a chi veniva allontanato dai sacramenti, tempo, fatica, energie preziose a coloro che nelle piazze dovevano dedicare gran parte dei loro comizi a dimostrare, a difendere, a esaltare la sua figura più che a diffondere capillarmente le ragioni di essere del Partito Sardo.
     Ma finalmente giunse anche il momento tanto atteso: Lussu stava per fare ritorno nell’Isola e la Sardegna tutta sembrava ardere dello stesso fuoco, anche quelli che sardisti non erano. Ricordo bene quel giorno a Nuoro: nella sala della Camera di Commercio gremita all’inverosimile, in una atmosfera incandescente di passione e di fede, rallegrata dai fiori raccolti in tutti gli orti di Nuoro, potevamo vedere da vicino il nostro eroe, stringergli la mano, ascoltarlo parlare, riconoscerci in lui. Così come ricordo il comizio da lui tenuto il pomeriggio dello stesso giorno in piazza San Giovanni davanti ad una folla strabocchevole: appariva un altro: un uomo che veniva da lontano, uno che aveva vissuto un tempo infinito fuori dall’Isola, che aveva conosciuto straordinarie esperienze nelle più diverse realtà di cui la Sardegna era una delle tante.
     Ci parlò del mondo, dell’Europa, dell’Italia per approdare infine in Sardegna, mentre ci aspettavano che, fatto ricco di tante preziose esperienze, partisse dall’Isola, dalla dolorosa realtà in cui era maturata la sua militanza politica di fondatore del PSd’Az., che non era mutata da allora, e questo non per chiudersi, e chiuderci entro i confini dell’Isola, ma per aprirci all’Europa e al Mondo.
     Lussu non trovò un Partito Sardo separatista: il programma era lo stesso che, a suo tempo, aveva tracciato nelle sue linee essenziali Bellieni, con la partecipazione dello stesso Lussu, Pilia e tanti altri: una Sardegna liberata dalla soggezione e dalla subalternità dello Stato italiano, autonoma nel senso più pieno del termine e, in prospettiva, federalista.
     Non c’è dubbio che l’aria, il clima che si sono sempre determinati nei congressi del Partito Sardo sono del tutto particolari per quel profondo viscerale sentimento che lega il figlio alla madre e che tanto più si fa forte e appassionato quanto più la madre appare umiliata e offesa. Non è difficile allora immaginare che cosa furono i congressi di Oristano prima e, successivamente, di Cagliari, che portò alla scissione, ma ritengo che possa pienamente capirlo solo chi li ha direttamente vissuti e sofferti.
In quei congressi ci furono lacrime, dolore, angoscia, stupore, costernazione e sgomento proprio come accade per una disgrazia familiare. Per darne la misura citerò, fra i molti, due esempi di cui ho più diretta conoscenza.      Marianna Bussalay, antifascista intrepida, esempio straordinario di dirittura morale, personalità ricca e generosa attorno alla quale si sono formate generazioni di giovani. Cresciuta nel culto di Lussu e nell’ardente amore per la Sardegna, accingendosi a votare contro la mozione di Lussu, venne meno, ma riprendendo i sensi votò decisamente contro esclamando: «Prima la piccola Patria, poi l’uomo».
     Titino Melis. Cresciuto e formatosi nella ideologia sardista (a diciassette anni era segretario della sezione giovanile di Cagliari), profondamente e filialmente legato a Lussu, di cui aveva seguito ogni passo: dall’aggressione di piazza Martiri al confino a Lipari, all’avventurosa fuga, alla malattia, al soggiorno all’estero sempre in contatto con chi poteva dare e portare notizie, per quanto possibile in tempi di estrema chiusura e sospetto.
     Al rientro di Lussu in Sardegna non esitò un istante a ubbidirgli quando egli decise che la direzione del Solco doveva essere portata a Cagliari e che Titino doveva trasferirsi in quella città. La cosa non era affatto semplice perché Nuoro era la sua città di elezione, perché vi risiedeva la famiglia, perché vi era professionista affermato.
     Partì per Cagliari quasi da un giorno all’altro, con la disciplina di un coscritto e con la piena disponibilità di un uomo di fede iniziando ex novo la sua attività professionale di avvocato e, poiché non disponeva di rendite e doveva mantenersi, per diversi mesi visse giorno per giorno dormendo la notte in una brandina sistemata alla meglio in una stanza della sezione del Partito, ospitata allora negli scantinati della ex Legione dei carabinieri in corso Vittorio Emanuele.
     Tutto ciò, naturalmente, è facile da raccontare ma è stato assai difficile e pesante viverlo e serve oggi solo a dare la misura di quale sia stata la stima, la devozione di Titino Melis nei confronti di Lussu.
     Allo stesso modo, però, e con la stessa determinazione gli disse di no quando Lussu sembrò voler “diluire” il valore, il significato, la ragione stessa di essere del Partito Sardo, in un partito nazionale. Così pure rispose ancora una volta no alla autorevole esortazione-rimprovero che Lussu gli aveva rivolto: «Che cosa hai a che fare tu con questi borghesi?», e ciò per restare fedele alla causa sardista di sempre.
     Ma Lussu, per l’esperienza maturata, per il lungo esilio sofferto, per la fortissima personalità che lo faceva leader, ritenne di avere il diritto e la forza morale di imporre il suo punto di vista, quasi Padre-padrone. Nel memorabile congresso di Cagliari – come il Pater familias della tradizione – avrebbe voluto che il PSd’Az. confluisse nel Partito Italiano d’Azione, in una prima fase e, entrato questo in crisi, attraverso una ulteriore fase di passaggio, nel PSI.
     Con forte indignazione, quasi con stupore, vide il Partito e la quasi totalità dei dirigenti resistergli e si sentì come tradito dalla sua stessa famiglia. E il Partito, a sua volta, si sentì lacerato nelle sue carni, ma pur con infinita sofferenza gli resistette e andò avanti per la sua strada e lungo il solco che lui stesso aveva contribuito ad aprire un tempo, ma che ora non riconosceva perché gli pareva piccola cosa, limitata e provinciale, di fronte alle autostrade del mondo.
     Quante volte ho pensato che cosa sarebbe stata la Sardegna, quali traguardi avrebbe potuto raggiungere se il Capo riconosciuto e amato avesse ripreso la sua battaglia dal punto in cui la violenza fascista si era abbattuta sul paese e su uomini generosi e impavidi come lui.
     Quella scissione infatti non fu solo una jattura per il Partito Sardo, non lo fu solo per Lussu che passerà alla storia come antifascista di primo piano, come scrittore di rara efficacia, come pietra d’angolo della riconquistata democrazia e come fondatore del PSd’Az., non certo come ideatore del PSd’Az. Socialista – che segnerà, al contrario, un punto d’arresto della parabola ascendente della sua vita politica –, ma fu una sventura per tutta la Sardegna che intorno a lui e al suo carisma avrebbe potuto trovare quella unità di popolo attraverso la quale sarebbe arrivata l’autentica rinascita dell’Isola.
     Lussu scelse di morire in solitudine, credo amareggiato e deluso, forse con molti rimpianti: ritengo altresì che lo stato d’animo dei suoi vecchi compagni, come di coloro che si sono messi nel loro stesso solco, possa essere efficacemente sintetizzato da un verso del poeta Delogu: «Frade caru, galu non t’appo cumpresu, ma non t’appo irmenticau», in cui insieme si fondono stima, affetto, profondo rammarico, rimpianto...

di Gianfranco Murtas - 06/07/2016


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