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Salvatore Ghirra, la singolarità di una storia politica

     Nelle settimane scorse, Antonio Ghirra - figlio dell'indimenticato Salvatore - ha indirizzato al sindaco di Cagliari, al presidente del Consiglio comunale, al Servizio Toponomastica, all'assessore alla Cultura ed al presidente della Commissione Toponomastica, una richiesta di intitolazione di una strada ("area di circolazione veicolare") al padre.
un giovane Salvatore Ghirra a Carbonia      Si sa quale tormento siano, per i proponenti ma forse anche e soprattutto per chi deve decidere il sì oppure il no, i fascicoli che trattano una tale materia. Si tratta sempre di questioni ora di opportunità ora di… equilibri. Il sindaco Zedda – che pure ho votato e molti repubblicani hanno votato – non si è, purtroppo, mostrato all’altezza del suo ruolo in numerose occasioni. Chissà se sappia, con l’Amministrazione e il Consiglio intero, correggere e raddrizzare, in senso democratico, almeno gli svarioni toponomastici che la screditatissima destra populista di Delogu e Floris ha imposto alla piantina di Cagliari.
     Diciamolo pure, perché è stata una battaglia ormai di trent’anni che ho combattuto in solitudine, combattuto ancora e ancora, e infine perso: che Ugo La Malfa e Giovanni Battista Melis non hanno neppure essi – a 35 ed a 39 anni dalla morte rispettivamente – una strada intestata, nel capoluogo della regione, al loro nobile nome di autentici padri della patria, antifascisti (galeotti a San Vittore!) e uomini della politica (la più bella politica) e delle istituzioni.
     Io sostengo toto corde la proposta avanzata nelle sedi competenti da Antonio Ghirra e certamente accompagnata dai voti della famiglia. Ma credo che il concorso delle organizzazioni associative che hanno conosciuto il talento e la passione civile di Salvatore Ghirra – dall’AMI alla Cesare Pintus, all’Endas, ecc. – possa favorire ancor più e meglio l’iniziativa.
     Quel che posso fare, nel concreto, oggi, è girare a chi di dovere l’appello e ricordare a loro ed a me stesso, sia pure brevemente, chi sia stato e quale servizio all’interesse generale, come legislatore regionale e come presidente della Commissione Urbanistica del Consiglio Comunale di Cagliari, abbia offerto l’indimenticato segretario regionale del PRI.


     Dal dicembre 2000 ad oggi sono passati tredici anni e qualche mese. E’ il tempo che abbiamo trascorso, nell’attenzione alla politica, o nella cura della politica, secondo una passione che il disincanto dei tempi non ha affogato nel nulla, senza la possibilità del confronto di opinioni, o dello scambio anche di esperienze, contatti ed intenzioni, con Salvatore Ghirra. Molti del campo nostro, quello della democrazia repubblicana e sardista – il sardismo italianista delle radici bellieniane incrociatosi col repubblicanesimo per un intero mezzo secolo, nel primo dopoguerra, contro la dittatura ed infine in democrazia a partire già dagli anni ’40 –, lo avevano incontrato; ora è passato quasi mezzo secolo: diciamo a far data dagli ultimi anni ’60 o nei primi anni ’70, magari nel Movimento Sardista Autonomista che nasceva da una dolorosa contestazione interna al Partito Sardo d’Azione (al tempo ancora alleato del PRI, con Giovanni Battista Melis iscritto al gruppo parlamentare repubblicano), magari già nel Partito Repubblicano Italiano di Ugo La Malfa e qui in Sardegna di Alberto Mario Saba e Lello Puddu.
     Lo avevamo incontrato anche noi giovani della FGR, giusto allora, e s’era subito rivelato a noi una personalità singolare per molti aspetti che ci avevano colpito, direi moderatamente incuriosito, non affascinato però, perché ci era sembrato un pianeta certamente da scoprire ma non granché interessato lui stesso a farsi scoprire entrando in empatia, e piuttosto lontano e forse destinato a restare lontano, quasi estraneo alla nostra visione delle cose. Ecco qui come ci appariva e come lo sentivamo – è una ricostruzione psicologica che compio, questa, tanti anni dopo! – in quell’approccio che comunque non si poteva e non si doveva evitare, perché egli era un dirigente importante. Recava con sé caratteristiche umane ed un passato di vita pubblica meritevoli di scandaglio per possibili affiancamenti – chissà quali, ammesso che ce li avesse un giorno concessi – per possibili impegni condivisi in vista di obiettivi che prendevano allora tutto il nostro entusiasmo.
     Vorrei introdurre questo articolo di taglio biografico – incentrato sulla biografia pubblica di Salvatore Ghirra – con riferimenti di pura memoria, dunque soggettivi e personali per eccellenza, attingendo a quel patrimonio di ricordi che l’età ormai comincia a convocare, per mettere ordine nella ricostruzione … della stessa nostra identità! E dunque io ritorno al 1971 e 1972 e procedo, magari in velocità e per flash, ripassando con tecnica impressionista le molte stazioni della sua e nostra militanza repubblicana, la evoluzione nel tempo di quella nostra pratica d’appartenenza, fino al declino triste e immeritato del partito, e al suo ultimo tempo rinobilitato, in Sardegna o a Cagliari, nelle forme della associazione Cesare Pintus.

un invito      Ma ecco qui rivelata da subito l’occasione che ha suscitato oggi queste pagine appena adesso introdotte: il sostegno che sarebbe bello poter assicurare alla richiesta avanzata al Comune di Cagliari perché voglia onorare l’uomo politico, il sindacalista, il consigliere regionale e comunale che fu nostro amico con la intitolazione di una strada nel capoluogo. E ripassando la sua vicenda umana e soprattutto riesplorando quella sua partecipazione alla politica intesa come servizio all’interesse generale, si tratta di vedere – il concorso d’opinioni è aperto a tutti – se vi siano state quelle qualità eccellenti che meriterebbero la registrazione nel marmo d’una strada, oltre che nella memoria privata di chi l’ha conosciuto e frequentato. Ma prima, le impressioni della militanza.

I primi incontri

     L’ho ricordato neppure molto tempo fa in un articolo per il sito Edere Repubblicane – e le attenzioni andavano allora soprattutto alla persona e alla figura di Armando Corona –, ma bissare non sarà male. Noi della FGR avevamo, nella grande sede di via Sonnino, il nostro spazio, in una parte terminale, verso il retro palazzo, dopo anditi e svolte e tante stanze impreziosite da qualche manifesto e soprattutto dai ritratti su tavoletta dei grandi del repubblicanesimo mazziniano e cattaneano. In mezzo ai quali trionfava già allora il sardo Giorgio Asproni, del quale pochi anni addietro Bruno Josto Anedda aveva scoperto, presso il conte Enrico Dolfin, l’inedito monumentale Diario politico (insieme con molte altre carte manoscritte dal Bittese). Vent’anni di storia del risorgimento come li aveva vissuti un protagonista, quel canonico barbaricino che era diventato deputato per la prima volta nel 1849 – lo stesso anno della gloriosa e sfortunata Repubblica Romana – e che, quasi senza interruzione, aveva conservato il suo stallo nella sequenza delle capitali. Così fra palazzo Carignano e palazzo Vecchio e palazzo Montecitorio – legislatore sempre all’opposizione – fino alla morte, sopravvenuta nell’aprile 1876, pressoché in coincidenza con la salita al potere della sinistra costituzionale, che qualche ricordo mazziniano continuava a nutrirlo (anche se per il più, fra Depretis e Crispi, prese a disperderlo e perfino corromperlo).
     L’atmosfera ideale che si respirava in quelle stanze era nobilitata proprio dalle tavolette grigie con i volti di quei tanti Alberto Mario e Brofferio, Saffi e Armellini e Maurizio Quadrio, Pisacane e Ghisleri … e certamente ci sarà stato, fra loro, anche Goffredo Mameli come è certo che c’erano Cattaneo, e naturalmente il Maestro e Garibaldi … A tutto questo faceva da singolare supplemento la catasta degli opuscoli di propaganda – secondo la linea grafica di Michele Spera, con quelle linee geometriche che volgevano sempre a sinistra – su tavoli ed etager un po’ in ogni stanza, cominciando dall’ingresso con i banchi e le vetrate come se un tempo, in alternanza ad un’abitazione domestica, ci fosse stato lì un ufficio pubblico con tanto di impiegati allo sportello …
     Erano opuscoli che riportavano le cose dette e ridette da Ugo La Malfa, sempre da Ugo La Malfa, l’uomo vincente del partito e, sentivamo, dell’Italia, se l’Italia lo avesse ascoltato e seguito invece di costruire per lui, scaricandosi la coscienza, la retorica della Cassandra … La politica di programmazione, quella dei redditi come strumento della concertazione economica in logica di responsabilità condivisa del governo e delle forze sociali, sindacali e datoriali, e il regionalismo con la riforma istituzionale (è del 1972 il bellissimo compiuto contributo di La Malfa a “La Repubblica probabile” a cura di Mario d’Antonio, ed è da ricordare che è del 1970 l’avvio del processo regionalista in Italia in attuazione, vent’anni e passa dopo, del dettato costituzionale).
     Ecco il nostro mix di adolescenti – Roberto Dessì, Franco Cossu, Piergiorgio Cadeddu, Alberto Manfredi (che in facoltà di Magistero era allievo di Paolo Spriano e al partito ci faceva lezione di storia antifascista)… – quando incontrammo Salvatore Ghirra: il risorgimento patrio raccontato dai santini della democrazia repubblicana appesi al muro e ancor meglio plasticamente rappresentato dal busto antico (1905, opera di Pippo Boero) di Giovanni Bovio il santo, recuperato dalle segrete municipali in cui l’aveva confinato la razzia compiuta dai questurini fascisti nel 1925 presso la loggia Sigismondo Arquer, e – in singolare fascinoso contrappunto – il modernismo di taglio azionista di Ugo La Malfa e del PRI a sua leadership. Un partito che ben più di quello socialista (per non dire del socialdemocratico) rappresentava una replica aggiornata del glorioso Partito d’Azione degli anni 1942-1946 o 1947.
     Ancora ragazzi, noi della FGR, orecchiavamo la cosa, certamente non avevamo gli strumenti critici per comprenderla appieno, ma avevamo la sensazione che anche per la generalità degli adulti che frequentavano la stessa sede la cosa non fosse davvero conosciuta e goduta appunto criticamente … Noi sentivamo che era una storia di cui andare fieri, e per il resto la relazione amicale propria dell’età insaporiva la nostra militanza, la nostra pur modesta predicazione, quei tentativi di collaborazione con gli altri movimenti politici giovanili – la FGCI con Gianni Bonanno, la FGSI, i giovani sardisti, quelli della GLI con i Lecis e Gigi Dessì e Francesco Putzolu, anche gli extraparlamentari organizzati in qualche sigla (come quelli del Manifesto) –, avvertendo sempre di dover onorare la casacca.
     Gli adulti, i dirigenti del partito discutevano molto di questioni regionali, ed era logico per il collegamento con i territori che essi avevano e coltivavano e da cui, anzi, muoveva la storia della maggioranza di loro. Salvatore Ghirra e naturalmente Armando Corona, Antonio Masia, Candido Delogu che presidiava l’ufficio (prima dell’infelice arrivo di Umberto Figus, purtroppo anche lui prematuramente scomparso), ecc. Essi avevano esperienza e mille contatti informati, conoscevano le cose, sapevano reggere un confronto con i professionisti della politica dei maggiori partiti e delle istituzioni autonomistiche, degli enti strumentali e di quelli locali. Noi, per l’età e gli slanci morali della prima giovinezza, andavamo più per idee generali, per valori universali, per il giudizio rapido sulla (insopportabile) guerra americana in Vietnam o su quella arabo-israeliana sempre fumante (noi dalla parte di Israele ma non contro i palestinesi, contro i feudali capi arabi), sulla resistente dittatura di Franco, sul colonialismo e l’apartheid, sull’europeismo e la NATO occidentalista.
     E’ indubitabile vi fosse uno scarto, nel partito, fra i nostri e gli esponenti nazionali. L’affabulatore migliore di tutti, e anche il più generoso di tutti, era sempre Lello Puddu, che sapeva fare gioco di squadra meglio di tutti, lavorare meglio di tutti per l’ideale senza ipotizzare alcun realistico contraccambio. Di mestiere era missionario della religione di Mazzini, e lo faceva con cultura e lealtà, anche se non tutti (dei nuovi arrivati e anche dei nuovissimi) lo capivano. Rispetto a quello che era stato un tempo nel partito in Sardegna, il suo spazio si era ridotto progressivamente, man mano che arrivavano le nuove leve, i lamalfiani risorgimentisti come Anedda o i lamalfiani tecnocrati come Satta o i lamalfiani sardisti come quelli del MSA. Ma se il suo spazio si riduceva, il suo ruolo di ponte fiduciario fra la Sardegna e piazza dei Caprettari non poteva essere scalfito da alcuno. Per questo anzi, per il bene del partito, era sempre in prima fila quando si trattava di combinare “acquisti” di qualità, spalleggiato dai dirigenti nazionali. E Salvatore Ghirra, con molti altri del Movimento Sardista Autonomista, era anche lui una persona di qualità da presentare all’ecumene repubblicana d’Italia: a lui forse si attribuivano attitudini che non possedeva nella misura esagerata che la facile mitologia ancora paesana di qualcuno decantava (intendo i prodigi organizzativi), mentre non a sufficienza si scorgevano i suoi talenti nell’andare per obiettivi progressivi, nel combinare gli argomenti tattici con i quali potenziare – era questo anche il vocabolario del tempo (che risentiva evidentemente del frasario militare) – la strategia finale: altri equilibri fra le forze politiche in uno ai risultati concreti della politica sociale ed economica. Soprattutto della politica regionale in materia sia industriale, di promozione degli insediamenti e delle verticalizzazioni produttive, sia agricola (si pensi alla applicazione della De Marzi-Cipolla del tempo), sia al terziario turistico, ecc..
     A fronte della sua statura fisica – modesta ma rispettata –, la statura intellettuale e insieme passionale di Salvatore Ghirra segnalava alla militanza repubblicana (di cui ho avuto sempre l’impressione egli si sentisse, nei primi tempi, soltanto ospite) una personalità che avrebbe avuto un giorno un ruolo di guida del partito regionale emancipatosi dalla leadership assoluta di Armando Corona.
     Di questo marziano avevamo colto alcuni tratti caratteriali, e il primo era una timidezza che ne schermava l’approccio agli altri, almeno fino a che non si rendesse conto di stare con amici e non con avversari per forza critici od ostili. Per questo il suo rilascio collaborativo era graduale. D’altra parte anche noi, per quanto giovani e chiamati dunque alla umiltà come chiunque debba imparare, non potevamo darci senza sapere che, di fronte, c’era chi ci rispettava e non ci considerava soltanto uno strumento od una pedina da muovere secondo disegni non rivelati. Nessun amore con Salvatore Ghirra, all’inizio almeno, ma rispetto comunque e autentico.
     Noi eravamo, l’ho detto, repubblicani del mix risorgimento-azionismo, ma chiaramente subivamo il superiore (perché immediato ed attuale) ascendente lamalfiano. Godevamo d’essere in ranghi di minoranza. E forse, pensando a Ghirra, non avevamo capito quanto egli stesso fosse stato, per scelta non per costrizione, minoranza come noi e più di noi. Ad un certo punto ridottosi perfino a una monade. Avendo abbandonato un grande partito e un grande sindacato, non soltanto il loro vertice, avendo patito la solitudine – o una sostanziale solitudine – in Consiglio regionale, dopo l’uscita dal gruppo comunista nel 1965.
     C’era occorso di leggere qualche pagina più o meno volante sulla storia moderna del nostro partito, diciamo da dopo la guerra, quando il protagonismo dei repubblicani doc si era mischiato e confuso con quello azionista, fra resistenza antifascista e costituente e primo parlamento. I più fra quelli destinati a confluire nel PRI di Pacciardi erano usciti dal Partito d’Azione nel 1946, dopo il tribolato congresso di Roma del febbraio. Fra essi, con La Malfa e Ferruccio Parri, c’erano Visentini e Cifarelli (mi pare non ancora Reale, arrivato nel 1947), ma anche Salvatorelli e De Ruggiero, Vinciguerra e Craveri (marito di Elena Croce, e la Croce con lui), Vindice Cavallera – figlio del Cavallera socialista del nostro Sulcis-Iglesiente, e Gallo Granchielli … e anche, alleato con altri meridionalisti ma già ritrattosi dal partito, Guido Dorso in quel di Avellino … quanti cioè alle elezioni per la costituente, pochi mesi dopo, avrebbero dato vita alla lista della Concentrazione Democratica Repubblicana. Altri, come il sassarese Stefano Siglienti (e la repubblicana da sempre Ines Berlinguer, sua moglie), avrebbero accompagnato, nella seconda linea dei consiglieri, la pattuglia. L’anno dopo, quanto restava del partito (Fancello incluso), catechizzato dal socialismo lussiano, portava la bandiera nel PSI di Basso e Nenni, imprigionando per un anno intero, cioè fino alla scissione del luglio 1948, il PSd’A interclassista non socialista dei Mastino (senatore di diritto), degli Oggiano (senatore eletto) e dei Melis (deputato alla Camera), in una collaborazione politicamente e ideologicamente tutta contraddittoria …
     Il PRI aveva poi vissuto, dopo la costituente, stagioni importanti, nell’alleanza degasperiana, e fra 1951 e 1953 – due anni interi – in un governo bipartito con la DC che aveva saputo esitare quella Cassa per il mezzogiorno intesa come strumento della politica meridionalistica (per le infrastrutture economiche e civili) e la liberalizzazione degli scambi che inseriva ancor più l’economia nazionale in un mercato aperto, aperto cioè all’Europa e al mondo. Nel 1952 il ministro La Malfa era anche venuto in Sardegna, scortato da Giovanni Battista Melis e da Pietro Melis (questo secondo consigliere regionale e prossimo assessore agli enti locali e quindi all’industria), nonché da Mario Carta (autorità mondiale in campo mineralogico, già assessore tecnico sardista in una giunta Crespellani e prossimo preside di Ingegneria). Negli incontri tenuti alle tre Camere di commercio provinciali aveva dovuto anche scontrarsi, La Malfa, con quegli imprenditori isolani che non capivano il perché degli abbattimenti daziari che sembravano indebolire invece che rafforzare l’economia della regione come quella di tutto il Mezzogiorno. E non capivano che era il primo strumento modernizzatore …
     Dopo il fallimento della legge maggioritaria del 1953 e la morte di De Gasperi era cominciata una lunga stagione che puntava all’allargamento dell’area governativa inserendovi i socialisti ancora legati al patto d’unità d’azione con un PCI orfano di Stalin, confuso dalla pubblicazione, al XX congresso del PCUS, del famoso rapporto sui crimini politici del dittatore, ma anche consenziente all’invasione militare della Ungheria. Noi queste cose che, per ragioni anagrafiche, non avevamo vissuto e che a scuola non avevamo studiato (perché la storia del Novecento si fermava nei programmi alla seconda guerra mondiale), le avevamo imparate dal partito, perché i partiti politici erano anche delle scuole sui generis e tenevano, suscitati della stessa lotta politica corrente, permanenti corsi di storia contemporanea … Con molta finezza, va detto, ciò avveniva nel PRI, e noi ragazzi ne fummo beneficiari.
     In questo stesso contesto avevamo capito – senza essere indottrinati – cosa fosse stato il centro-sinistra battezzato dalla famosa nota aggiuntiva al bilancio dello Stato del 1962, avevamo capito le sue potenzialità e le sue debolezze, avevamo capito – bene o male – la relazione che poteva e forse doveva ancora esserci fra lo scenario politico nazionale e quello regionale, nel quale ultimo una variante era costituita dalla presenza sardista con le complicazioni sia dell’alleanza ferita (non saprei se per colpa soltanto o soprattutto di Fidel, alias Antonio Simon Mossa) col PRI stesso e della formazione anche del MSA, sia della politica contestativa avviata in campo democristiano dalle giunte Dettori e Del Rio.
     Guardavamo a questo scenario, sforzandoci di penetrarne le logiche, impadronendoci dunque prima di tutto delle categorie della politica – sicché entravano nella nostra militanza, volenti o nolenti, un po’ di nozioni di scienza economica e di diritto costituzionale e regionale … Sentivamo in Adolfo Battaglia l’uomo che, ancora relativamente giovane, La Malfa aveva chiamato, insieme col calabrese Emanuele Terrana, come suo vice e forse erede, dopo la morte di quel gran signore che era stato l’ex sindaco di Ancona Claudio Salmoni (nel 1970).
     Chi più informato e appassionato chi meno, magari più meditativo, discutevamo di queste grandi cose, e anche di altre, noi della FGR fra 1970 e 1971 e 1972, nella stanza assegnataci in quel di via Sonnino 128. Una stanza che forse era stata la cucina quando quella sede funzionava da appartamento domiciliare di una famiglia, con una dependance che forse era stata la dispensa nelle stagioni pregresse, divenuta ora alloggio del busto silenzioso e prezioso di Giovanni Bovio. I grandi, gli adulti cioè (rispetto a noi che avevamo 17-18 anni), occupavano le altre quattro o cinque stanze, quelli al regionale (anzi, alla federazione regionale), quegli altri alla consociazione provinciale, quegli altri ancora alla sezione cittadina; l’Endas – per un po’ ancora dominio di Bruno Josto Anedda e sorveglianza di Pietro Bulla – occupava le due stanzette con ingresso indipendente, contigue agli spazi del partito il quale godeva di condividere con questi e quelli e quegli altri e anche con noi giovani il megasalone con le finestre e i balconi tutti dirimpetto alla Legione dei carabinieri, alla via Grazia Deledda (del liceo Michelangelo), alla cartoleria Mulas e anche al bar delle avare consumazioni per le … poche consolazioni.
     Vennero quel certo giorno d’inizio primavera del 1971 gli amici del Movimento Sardista Autonomista confluenti nel PRI, Ghirra fra loro. Noi ci godemmo la storicità dell’evento che impreziosiva, non diminuiva, la gloria eroica della minoranza estrema quale sentivamo di essere, e quali effettivamente eravamo: il 2 per cento dell’elettorato, qualche volta di più, qualche volta di meno. Ma quel rafforzamento di militanti e dirigenti non era tanto nei numeri – che pure era un vantaggio visibile nelle cose –, era un rinforzo della nostra autostima. E ce n’era davvero bisogno, anche perché il MSA non portava giovani organizzati che potessero allargare le nostre fila di FGR: ci avremmo tentato, nel 1973, con circolari alle sezioni, tanto più a quelle della provincia, chiedendo – ma generalmente senza avere risposta – se ci fossero giovani iscritti al partito a Tuili o a Pauli Arbarei o a Villaputzu, che si dicessero disponibili a collaborare con noi, o se negli ambienti familiari vi fosse qualche giovane che magari studiasse a Cagliari e fosse interessato alle nostre attività …
     La nostra curiosità di adolescenti o giovanissimi di fervida religione lamalfiana si appuntava sui tipi umani che incontravamo per le prime volte. La cordialità era generale, taluno era anche affabile – Mario Pinna sopra tutti –, altri indulgevano ad un certo paternalismo derivante forse dalle posizioni professionali acquisite qua e là, o dalla carta d’identità, o dalla forma mentis particolare maturata o strutturata all’interno del Partito Sardo d’Azione che conservava perfino dal prefascismo, ma tanto più dagli anni ’40 e ’50, una caratteristica familistico-clientelare (nell’accezione dolce e corretta del termine) per cui la militanza era prevalentemente organizzata per falangi fiduciarie.
un invito      Nel gran novero delle personalità che prendemmo ad incrociare e davvero non l’ultima era, lo ripeto, Salvatore Ghirra, che veniva al Partito Repubblicano Italiano come coordinatore regionale del Movimento Sardista Autonomista. Lo vedemmo, scambiammo occasionalmente qualche parola, non scattò con lui alcun feeling. Dava del lei anche a noi ragazzi, noi lo ricambiavamo ovviamente (poteva essere nostro padre). Ci colpiva che molti, anche e soprattutto i militanti di estrazione sardista che bazzicavano nella sede diventata ormai sede comune, lo chiamassero con il titolo di onorevole. Il che per un partito di massa come era il nostro, piccolo ma di massa (secondo il giudizio che era stato di Palmiro Togliatti), nel quale lo status paritario di militanti e dirigenti era pressoché assoluto, e di onorevole conosceva forse soltanto Ugo La Malfa – anche perché i parlamentari erano ben pochi: Reale, figura magna, e chi altri? dal 1972 Giorgio La Malfa e Bogi, e al Senato Cifarelli, dal 1972 nientemeno che Spadolini (venuto per un comizio a Cagliari, in piazza Yenne, nel 1974, presentato da chi adesso ne scrive) –, la circostanza sorprendeva.
     Ai primi tempi egli non era presentissimo in sede, lo sarebbe diventato nel 1972 quando fu candidato alla Camera, e purtroppo subì allora un infarto che ne avrebbe segnato nel futuro, nonostante tutto, le possibilità di spendersi come si era speso fino a quel momento. Ci incuriosiva quel che avevamo appreso, noi ancora tutti quanti studenti ancora alle superiori o matricole in questa o quella facoltà: che aveva ripreso gli studi di legge, che frequentava l’università. E che associava lo studio all’attività professionale, come rappresentate o agente di case farmaceutiche e (ma adesso non saprei se in sovrapposizione o in sequenza) capo del personale della clinica Villa Verde, di proprietà della Depau Aresu e di cui era amministratore e direttore sanitario Armando Corona (a Carbonia, anni addietro, aveva maturato esperienza nel settore come economo di quell’ospedale).
     Pur avendo vissuto pressoché sempre nel sud isolano, fra Cagliari e Carbonia, aveva radici nel Sassarese, a Benetutti – patria di grandi politici (dal ministro giolittiano Francesco Cocco Ortu al presidente della Regione e deputato Pietro Soddu) –, ed era entrato nel sindacato, come quadro direttivo, prima dei contadini poi, nel Sulcis, dei minatori. Aveva allora superato da poco i trent’anni, e uomo dell’apparato come era divenuto (con una permanente sua indipendenza intellettuale però) aveva efficacemente scalato la segreteria della Camera del lavoro, prima a Carbonia appunto, poi a Cagliari, entrando nella segreteria regionale della CGIL.
     Ci incuriosiva questa sua lontana esperienza sindacale evolutasi poi in una invero più accidentata esperienza politica, tanto più come consigliere regionale del PCI a larga obbedienza togliattiana. Sapevamo che era stato consigliere regionale per otto anni, dal 1961: per quattro anni (quarta legislatura) ovviamente nel gruppo comunista, per quasi altrettanti – dopo l’uscita solitaria dal partito, alla fine del 1965 – fra il gruppo PSd’A (da indipendente) e quello che, costituitosi alla fine del 1967 con gli scissionisti del PSd’A Puligheddu e Ruju, sarebbe infine confluito nel nostro partito, portando carne e spirito alla causa politica repubblicana.
     Avevamo saputo, nella primavera di quel 1972, del suo infarto e del suo ricovero in ospedale, e fummo però complici, perché avvertiti e consenzienti, dell’operazione copertura: nel senso che portammo anche alla Rai o ai giornali i comunicati-stampa che riferivano dei discorsi pronunciati qua e là da Salvatore Ghirra candidato a un seggio di Montecitorio. Un bluff a puro scopo propagandistico che lo spirito di corpo del tempo impedì a noi di vivere con imbarazzo e che forse cavalcammo con una certa ebbrezza da romanzo. La lettura di un trafiletto-bluff, riguardante un comizio mai tenuto da Lussu mi pare a Samassi ed apparso sulla stampa del 1944, avrebbe un giorno indotto anche me ad assorbire definitivamente ogni residuo senso di colpa per la forzatura del 1972 …
     Segretario della consociazione provinciale dopo aver concluso la prova delle urne (con buon successo di preferenze ma senza aver colto l’obiettivo dell’elezione) e soprattutto dopo aver gradualmente ripreso le forze, visse una stagione nuovamente, ma diversamente da prima, difficile all’interno del partito. Fu quando venne accusato – ritengo ingiustamente – di aver “tirato” per la candidatura di un altro amico, alle regionali del 1974, mentre l’impegno doveva essere di spingere soprattutto quella del capolista Corona, consigliere uscente e anche lui, per supplemento di scalogna, ammalatosi seriamente in quel frangente tanto da non poter svolgere alcuna attività pubblica.
     Si trattò di un caso che ci fece male, quale che fosse la nostra personale propensione a favore di questo o quel candidato. Soprattutto esso ferì il partito – partito obiettivamente ancora debole sul piano organizzativo e della stabilizzazione della sua dirigenza – affacciando alla nostra casta sensibilità l’ipotesi che poteva darsi anche da noi, formazione pura e pulita, un caso di slealtà personale …
     Forse tratti di dubbia sincerità ce ne furono, ma non nel carico di Salvatore Ghirra. Che comunque per qualche tempo pagò il prezzo delle voci che assicuravano la verità scambiando le ombre per corpi reali.
     Chi avrà voglia un giorno dovrebbe scandagliare a fondo il rapporto umano e politico fra Salvatore Ghirra ed Armando Corona che fu allora, ma anche prima di allora e dopo di allora, in febbrile alternanza di intesa ed avversione. In stagioni solo in parte sovrapposte e comunque con accentuazioni molto molto diverse, fui amico di entrambi ed ebbi modo di registrare quelle sintonie soltanto rapsodiche fra i due. Non fu un caso che, dopo entrambe le rotture di rapporti fra i due (la seconda, maggiore e definitiva, ai tempi di Corona nuovo gran maestro della Massoneria e consigliere regionale assente però dai lavori dell’Assemblea e perciò insistentemente richiesto di dimettersi), Ghirra – polo debole nella relazione – perse occasioni professionali non da poco (la seconda volta da presidente dell’associazione regionale della case di cura private).
     Fermo qui la rubrica dei ricordi personali per andare invece alla scheda biografica supportata dai documenti.

Dal comunismo alla democrazia

     Nella biografia pubblica di Salvatore Ghirra, che copre con una inconfondibile cifra passionale oltre un cinquantennio, è subito interessante rilevare la cesura che rappresenta l’anno 1965. Dopo vent’anni esatti trascorsi nella combattiva militanza interna alle organizzazioni operaie, sia sul fronte sindacale della CGIL che su quello politico del PCI, egli approdò a quell’area democratica e riformatrice (per recuperare la terminologia classica delle dottrine politiche) della quale si sarebbe fatto protagonista, in Sardegna, fra i maggiori per tre lunghi decenni: esponente di formazioni di minoranza, così nella politica come nell’associazionismo, e pur tuttavia rispettate ed ammirate per dignità e capacità propositiva.
     E, va aggiunto, se l’esperienza compiuta dapprima nelle Camere del lavoro di Carbonia e di Cagliari, e poi nel gruppo comunista del Consiglio regionale della Sardegna, in anni di forte conflittualità sociale e di dura opposizione al nascente centro-sinistra, valse a maturarne la personalità e la competenza nell’arte della politica, certo è che il passaggio alla variegata area del sardismo a richiamo lamalfiano e del repubblicanesimo servì a dargli una raffinatezza anche di elaborazione di cui mai nessuno, avversari compresi, ha mancato di dargli atto.
     L’abbandono del Partito Comunista fu motivato essenzialmente da conflitti interni alla dirigenza di quel partito, egemonizzata allora da personalità, certamente di spicco ideologico, che non rinunciavano a pretendere docile sequela al sindacato ed a dettare quindi anche i modi di selezione, autenticamente leninisti, dei vertici della CGIL. La presa d’atto di una ostilità faziosa nei suoi confronti, unitamente al rifiuto di ogni massimalismo nella critica al piano di Rinascita in fase attuativa, gli rivelarono più nettamente che mai la incompatibilità con menti e metodi di quel partito cui, pure, aveva prestato lealtà di militanza e di servizio.
     La lettera inviata, nel novembre di quell’anno, all’on. Anselmo Contu, presidente del gruppo sardista nella quinta legislatura regionale, adopera un lessico molto interno al mondo politico e in particolare della sinistra politica, non spiegando apertamente le ragioni del dissidio. Limitando il discorso a generici addebiti al partito di provenienza (omaggio al galateo di casta, si direbbe oggi).
     Chi legga i suoi interventi in Consiglio del biennio immediatamente successivo alla sua uscita dal gruppo comunista, osserverà una apprezzabile coerenza al suo passato di sindacalista rosso. Per lui non si trattava cioè di “abiurare” ad esperienze ormai passate, ma di dare sviluppo ad esse, anche con uno sforzo di produzione che doveva ora cedere più direttamente, e quasi in solitudine, sulle sue spalle.
     Aderendo, da indipendente al gruppo sardista presieduto dall’on. Contu (e restando, sia pure teoricamente, oppositore della giunta in carica), egli ribadiva, fra le altre intenzioni, quelle di continuare a difendere l’interesse dei lavoratori e delle masse popolari da «ogni tentativo di sopraffazione monopolistica» e di promuovere «una più intensa azione moralizzatrice della vita pubblica a tutti i livelli, contro la degenerazione clientelare e provincialistica e contro l’abuso del potere a fini personali o di parte, che così profondamente mortificano la coscienza morale e la fiducia dei cittadini verso le istituzioni democratiche».
     E’ da ricordare il quadro politico del tempo: dopo la bocciatura consiliare delle dichiarazioni programmatiche rese nell’agosto 1965 dal presidente Efisio Corrias, questi era stato rieletto alla guida di un esecutivo quadripartito (DC-PSI-PSDI-PSd’A) che aveva avuto la fiducia alla fine dello stesso mese. I sardisti erano rappresentati da Giuseppe Puligheddu, assessore all’Agricoltura e foreste. Partecipavano a quella giunta almeno cinque futuri presidenti di giunta: Del Rio, Abis, Spano, Giagu e Soddu, e due prossimi deputati: Tocco e Cottoni.
     Neppure sette mesi ed a Corrias sarebbe però subentrato Paolo Dettori, con una giunta durata altrettanto, a cavallo fra 1966 e 1967, ancora con l’on. Puligheddu a capo dell’assessorato all’Agricoltura e foreste.
     Nella primavera 1967 un altro avvicendamento: presidenza Del Rio e sardisti all’opposizione.
     La rottura avvenuta negli ultimi mesi del 1967 all’interno del Partito Sardo d’Azione, e nel gruppo consiliare sardista, offrì a Ghirra una sponda per dare alle sue posizioni politiche un nuovo e più definito quadro di riferimento.
     E’ nota la situazione: il PSd’A che nel 1963 si era alleato formalmente con i repubblicani (utilizzando il simbolo dell’edera mazziniana) contava su un deputato, l’on. Giovanni Battista Melis, eletto nel collegio nazionale dei resti (dunque con i voti anche romagnoli, lombardi, laziali e siciliani), iscritto al gruppo del PRI a Montecitorio. In quanto direttore regionale del partito, questi, nell’intento di mantenere l’unità del partito, ritenne di non sconfessare quella corrente a vocazione separatista che attorno alle utopie di Antonio Simon Mossa andava prendendo corpo, alimentata anche dagli umori, o malumori, della politica contestativa, in senso antigovernativo, di quel periodo. Tale tolleranza non riuscì gradita ad una parte considerevole della dirigenza dei quattro mori, soprattutto del Nuorese: Pietro Mastino, uno dei fondatori del PSd’A, non rinnovò la tessera, e con lui uscirono (e/o furono scomunicati), fra gli altri, i consiglieri regionali Puligheddu e Ruju.
     Ormai fuori del partito, essi invitarono Salvatore Ghirra a trarsi dal gruppo del PSd’A e ad aderire al proprio (che per costituirsi aveva peraltro necessità di almeno tre consiglieri). Nacque così il gruppo Sardista Autonomista, da cui verrà l’omonimo movimento politico, il cui coordinatore regionale, dopo Nino Ruju, fu appunto, negli anni 1969-71, Ghirra. Ed è precisamente in questa esperienza che egli dette sostanza alla collocazione che aveva scelto per continuare la sua attività politica. Perché ebbe modo di conoscere finalmente, anche e prima di tutto sul piano umano e sociale, quella base elettorale che attorno ai valori e alle tradizioni del sardismo ed al carisma dei grandi notabili si riunivano in colorite sezioni di paese.
     Associati al Partito Repubblicano in un patto d’intesa (così alle politiche del 1968 come alle regionali del 1969 – quando venne eletto per la prima volta l’on. Corona, esponente dell’area frazionista – ed alle amministrative del 1970), i sardisti autonomisti confluirono formalmente nel partito di Ugo La Malfa nel marzo 1971. Ghirra fu uno dei tessitori dell’accordo ed entrò nella nuova direzione regionale paritetica assumendo l’incarico di segretario regionale organizzativo e successivamente quello di segretario provinciale di Cagliari.

Con l’edera, dopo che nel gruppo sardista

     Nel nuovo PRI sardo egli divenne fra i dirigenti più ascoltati ed anzi fu, per i vincoli stretti di collaborazione con Corona, il vero “motore” della difficile impresa che tendeva a fare delle sparse isolette elettorali modeste ma pur tuttavia attive sedi di discussione sulle sorti della Sardegna, proprio partendo dalle esperienze vissute da ciascuno nel proprio ambito di lavoro e di esperienza civica.
     Forse più di altri, anche per la trascorsa pratica sindacale, egli metabolizzò tutta la novità della impostazione lamalfiana mirante ad affrancare le migliori tradizioni politiche del regionalismo e del meridionalismo da quel tanto di dogmatico romanticismo che le aveva ingessate e perfino corrotte (come nel caso siciliano), assumendole invece come polo dialettico della programmazione: come momento, insomma, di proposta e partecipazione attuativa della politica nazionale di piano, senza deviazioni localiste e con precisa consapevolezza della sua finalizzazione all’assorbimento progressivo e strutturale dei differenziali di sviluppo economico, produttivo e civile fra nord e sud del Paese. Una battaglia persa.
     La successione (una storia che si ripeteva) a Nino Ruju nella segreteria regionale del PRI, nel 1981 si collocò in una fase della politica regionale particolarmente vivace: i repubblicani si proponevano come cerniera fra le forze del centro e quelle della sinistra per dar vita a un cartello cosiddetto autonomistico volto a strappare al governo centrale finalmente, con aumentato potere contrattuale, riconoscimenti di legge e di stanziamenti. Va soggiunto che la progressiva crescita elettorale del Partito Sardo d’Azione – un PSd’A tutt’affatto diverso, per pelle e cultura politica, da quello conosciuto e frequentato negli anni ’60 (questo nuovo sfrontatamente indipendentista e del tutto carente, oltre gli slogan della propaganda, sul piano della elaborazione programmatica) – pose ai repubblicani problemi nuovi di rigetto della storica contiguità e di dubbia compatibilità con chi esigeva il bilinguismo perfetto, la zona franca classica, il neutralismo internazionale e quant’altro.
     La posizione assunta da Salvatore Ghirra nella rappresentazione dei valori repubblicani risentì in modo straordinario degli input provenienti dalla segreteria nazionale di Giovanni Spadolini, attenta agli interessi e prima ancora all’idea stessa della patria comune e della repubblica una e indivisibile. Soltanto con Mario Melis – prestigioso leader della coalizione di sinistra che governava la Regione nella nona legislatura e uomo appartenente alla migliore, ma ormai troppo lontana, storia del sardismo a coscienza italiana – egli riuscì a trovare sintesi di accordi.
     Sul piano interno, peraltro, il PRI isolano scontò, proprio allora, le maggiori difficoltà di coesione, connesse alla influenza che, in vari modi, l’on Corona – ora gran maestro del Grande Oriente d’Italia – continuava ad esercitare su dirigenza e militanza. Tensioni centrifughe e salivazioni assessoriali (per il superamento cioè della scelta tecnica operata dall’Edera con la designazione dell’ing. Binaghi alla testa dei Lavori Pubblici nell’esecutivo Melis) progressivamente indebolirono la leadership del segretario inducendolo a mettere sostanzialmente fine, nel 1987, alla sua attività di dirigente di partito.
     Gli ultimi suoi appuntamenti politico in senso proprio furono forse quelli del giugno e del novembre 1987: quando egli si candidò per il rinnovo della Camera dei deputati e quando presentò il sofferto consuntivo della sua segreteria al congresso regionale – il XIX della sua storia – convocato a Quartu S. Elena (e conclusosi con la elezione di Achille Tarquini a nuovo segretario del partito). Questo appuntamento seguiva quello del marzo 1984 (svoltosi pure esso a Quartu S. Elena), che aveva visto diviso a metà il PRI fra i cosiddetti “coroniani” e gli “anticoroniani”. Il dibattito e la conta finale dei voti erano stati vissuti con passione e tensione. I giornali del tempo danno documento abbondante di quell’impasto di emozioni umane e politiche che rivelava a tutti il profilo autentico di una formazione che forse andava allora consumando la sua esistenza nella incapacità di onorare al meglio, nonostante il valore di molti suoi uomini, la sua storia, il lascito dei maggiori …
     Come detto, già nella tarda primavera, si erano tenute le elezioni parlamentari. Il nome di Salvatore Ghirra, associato a quello del capolista Adolfo Battaglia, fu presentato alla pubblica opinione da un cospicuo gruppo di professionisti e docenti, e il risultato in termini di consenso venne, ma ancora una volta non l’elezione. Insufficienti al quorum i 23.550 i voti andati alla lista, pari al 2,3 per cento.
     Uscito per autonoma volontà dalla scena politica, non s’interruppe però, da parte dell’ex segretario regionale repubblicano, l’impegno civile che, da allora, egli tese a sempre meglio coniugare ad una certa operosità culturale di cui si fecero protagonisti amici i quali con lui avevano condiviso la militanza nelle file dell’Edera. E cominciò così la stagione delle iniziative convegnistiche ed editoriali della Cesare Pintus.
     Già nella scelta di intitolare l’associazione al primo sindaco democratico di Cagliari dopo la guerra – al mazziniano passato, in straordinaria coerenza all’ideale, per le generose e perfino eroiche militanze repubblicana, gielle, azionista, sardista e, alla sequela di Lussu e nel tramonto della sua vita in un lontano sanatorio, sardo-socialista – c’era un messaggio politico: organizzare, sulla spinta di una forte idealità autonomistica e riformatrice, l’area composita e fertile della sinistra liberaldemocratica, socialista, sardista e repubblicana. Quasi una replica del movimento di Giustizia e Libertà in un contesto storico chiaramente e fortunatamente diverso da quello in cui esso sorse alla fine degli anni ’20.
     Con le sue circa oltre trenta assemblee di pubblico dibattito e le sue svariate produzioni editoriali premianti la ricerca storiografica attorno ai temi dell’azionismo regionale e in ultimo anche della sofferenza sociale diffusa nella nostra terra, l’associazione Cesare Pintus ha costituito, per merito soprattutto di Salvatore Ghirra, un luogo di confronto ideale e proposta veramente di alta civiltà.
     Numerosi degli argomenti scelti per raccogliere opinioni dando voce a tutti, marginali compresi, riflettevano le sollecitazioni che si ritrovano nei suoi interventi consiliari degli anni ’60, così come in quelli svolti nell’assemblea civica di Cagliari, di cui fu membro (e severo presidente della commissione Urbanistica) fra il 1985 ed il 1990, e, ancora, nelle direzioni repubblicane: necessità del recupero di trasparenza e credibilità delle istituzioni, effettività del rapporto fra queste e la cittadinanza per l’affermarsi indeclinabile della imparzialità della pubblica amministrazione. E, d’altra parte, è proprio questo lo specifico ideologico, se così può dirsi, dell’area democratica a riferimento repubblicano (rispetto a quelle e liberale e marxista): la centralità delle istituzioni nella regolazione della vita sociale, l’individuazione in esse della sede in cui la libertà civile prepara e si lega a quella economica e sociale.
     Fallito il tentativo di dar vita, con l’apporto di diversi contributi e cattolici e laici, alla formazione di Alleanza Democratica – una forza intimamente riformatrice – e consumata, anch’essa nel fallimento, per l’insuperabile vischiosità partitocratica dell’intero arco politico e l’insufficiente fede e combattività dei suoi protagonisti, l’esperienza del Movimento regionale delle riforme, di cui egli fu insieme con Massimo Fantola e Pier Sandro Scano (in logica trasversale) il massimo esponente, Ghirra cessò nel 1997, definitivamente, ogni partecipazione alla vita pubblica.
     Il “sì” detto al gruppo della Sinistra Repubblicana confluita infine nei Democratici di sinistra non fu affatto entusiasta. Niente di quel progetto lo convinceva. Il consenso dato al progetto dell’Ulivo aveva avuto ben altra forza: partecipò infatti ai cosiddetti “comitati Prodi”, nel 1996, non partecipò se non per atto di cortesia a qualche riunione dei DS. L’opposizione al disegno politico, che riteneva “pericoloso”, del polo berlusconiano, esigeva da parte della sinistra ben altre stature che non quelle che affollavano ed affollano, purtroppo, il teatro chiacchierone della politica e regionale e nazionale.

Ghirra, presidente-fondatore della Cesare Pintus

     Nata proprio da un’idea di Salvatore Ghirra, condivisa da subito con Lello Puddu e Marcello Tuveri – all’indomani della loro uscita dalla dirigenza regionale del Partito Repubblicano Italiano – l’associazione Cesare Pintus si impose per un intero decennio come una delle protagoniste della vita culturale cagliaritana: impegnata sempre, attraverso un’intensa attività convegnistica, a definire e favorire, come si legge nel suo statuto, «il progresso della cultura politica nei diversi profili economici, sociali e civili, sottoponendo ad indagine critica i problemi della vita regionale al fine di ricostituire il corretto rapporto tra etica e politica».
     Fondato su uno zoccolo duro di aderenti d’estrazione repubblicana, il sodalizio è stato presieduto, fin dall’origine, dallo stesso Ghirra, che in esso portava una ormai quasi cinquantennale esperienza come dirigente sindacale e politico. A lui particolarmente si deve l’incontro della Cesare Pintus con organizzazioni analoghe (da Partecipazione e Solidarietà in campo cattolico, all’ANPPIA-Perseguitati politici antifascisti sul fronte della sinistra, da Sardinia nell’area sardista all’Associazione Mazziniana Italiana, ecc.), le quali pure si muovevano nel solco ideale del recupero alla politica di un tratto etico e culturale che era sembrato, purtroppo, generalmente perduto negli ultimi anni. Con esse, e con altre ancora, furono allestite manifestazioni e occasioni di dibattito, sempre con grande successo di pubblico ed attenzione di stampa e mass media.
     La Cesare Pintus fu formalmente presentata alla cittadinanza nell’aula consigliare del Municipio di Cagliari il 3 giugno 1988, dall’allora sindaco Paolo De Magistris. L’API sarda, prima che l’associazione potesse disporre di una sua propria sede (trovata poi al civico 10 di via Caboni, da dove si sarebbe trasferita successivamente in via Roma 167), concesse con liberalità i propri locali per le frequenti assemblee dei soci: una sessantina all’inizio della sua esperienza. Oltre 40 furono – lungo un decennio, il primo decennio di vita dell’associazione interamente legato alla presidenza Ghirra – le iniziative assunte (tavole rotonde, convegni, presentazioni di libri, ecc.), con più di 150 relatori e, volta a volta, un pubblico che è andato dalle 100 alle 350 presenze. Per un totale forse di diecimila!
     Le sedi prescelte – che così sottolineavano il generale accredito dell’associazione – furono soprattutto istituzionali (dall’aula consigliare dell’Amministrazione provinciale – al Viceregio – alla cittadella dei Musei, alle facoltà di Ingegneria o di Legge, dalla Camera di Commercio al palazzo di Giustizia, al Municipio del capoluogo) e le stesse organizzazioni imprenditoriali o sindacali (dall’Associazione industriali alla CISL) non mancarono di offrire la loro ospitalità, così come gli istituti di credito regionali (Banco di Sardegna e CIS) che disponevano di sale-convegno assai capienti e funzionali, ed i grandi alberghi cittadini (Mediterraneo, Panorama, Regina Margherita...).
     La stampa locale quotidiana e le televisioni mostrarono, per la maggioranza di esse, attenzione ed interesse confezionando servizi giornalisti sovente approfonditi, fino ad aprire – come capitò al TG3 il 25 aprile 1990 – la propria maggiore edizione.
     Quali i temi trattati in questo profluvio di incontri tutti ad altissimo livello? Ecco di seguito i titoli che, come si può rilevare, alternavano gli interessi storici all’analisi della più bruciante attualità isolana, nazionale ed internazionale, i motivi dell’economia a quelli della riforma della politica e delle istituzioni:
- La Brigata Sassari e la nascita del Movimento dei combattenti;
- Coste ed urbanistica;
- L’emergenza idrica in Sardegna;
- Il Movimento repubblicano da Giuseppe Mazzini ad Ugo La Malfa;
- I trasporti industria trainante dello sviluppo della Sardegna;
- Quale regolamentazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali?
- Questione morale e classe politica;
- La Romania da Antonescu a Ceausescu;
- Il cittadino e il nuovo processo penale;
- Il Risorgimento italiano tra storia e politica;
- Le ideologie, la democrazia, la sinistra;
- Sardegna 1991. Recessione, stasi, sviluppo dell’economia?
- La legge 142/90 e l’area metropolitana di Cagliari;
- Politica dei redditi, riforma del salario, nuove relazioni sindacali;
- La trasparenza amministrativa nella legislazione nazionale e regionale;
- Dopo il terremoto elettorale. Quali riforme?
- L’8 settembre 1943 in Sardegna. Fatti, personaggi, opinioni;
- I sardi di Giustizia e Libertà nella resistenza;
- Sardegna: fatti e persone 1993;
- Antifascismo e resistenza, valori oggi;
- Le nuove regole per l’elezione del sindaco e del Consiglio comunale di Cagliari, per il Consiglio - regionale;
- Come uscire da Progettopoli?
- Presidenzialismo, semipresidenzialismo e poi? ...
- Un incontro per capire la sofferenza giovanile a Cagliari fra droga, Aids e carcere; - Idem: 2° meeting;
- Mazzini nella critica storica e letteraria.

un invito
Discutendo di libri ed idee

     Strettamente intrecciate a tali iniziative di approfondito confronto dialettico furono le presentazioni di libri, segnatamente quelli da me curati – taluno dei quali patrocinato dalla stessa associazione –, tutti volti ad approfondire, anche sulla scorta di materiale documentario inedito, la storia della democrazia repubblicana ed autonomistica della Sardegna moderna.
     Eccone i titoli qui evidenziati col corsivo: uno, Ugo La Malfa e la Sardegna; due, Cesare Pintus e l’Azionismo lussiano; tre, Sardismo e Azionismo negli anni del CLN; quattro, Bastianina il sardoAzionismo, Saba Berlinguer e Mastino; cinque, Titino Melis il PSd’A mazziniano, Fancello Siglienti i gielle; sei, «Con cuore di sardo e di italiano» (Giovanni Battista Melis deputato alla I e IV legislatura repubblicana); sette, Alla fabbrica della Repubblica e dell’Autonomia ( 2 voll:); otto, Per Alberto Mario Saba; nove, Ferruccio Parri sardista elettivo; dieci, Quel sardismo per l’Italia (Omaggio a Lussu, Bellieni e Contu nel ventesimo della scompasa); undici, Per Giovanni Spadolini, per Bruno Visentini; dodici, 1946, l’anno della Repubblica; tredici, Storia del “Cavaliere senza macchia e senza paura”. Ed inoltre, aprendosi alla realtà giovanile dell’Isola attraversata dalle inquietudini del disagio e della devianza, la trilogia Partenia in Callari edizioni 1996, 1997 (con supplemento), 1998-1999 (con supplemento Partenia in Norbio).
     Particolarmente attiva fu la presenza dell’associazione all’interno del Movimento delle riforme (coordinato appunto da Ghirra insieme, come detto, con Massimo Fantola, d’area cattolica già democristiana, ed il pds-comunista Pier Sandro Scano). Un’ipotesi di adesione ad Alleanza Democratica, cui pure s’è accennato, e che costituì un’esperienza effimera nella politica dei primi anni ’90, venne affacciata ma non formalizzata, prima che l’on. Mario Segni abbandonasse il campo. Il costituendo raggruppamento, che doveva essere progressista, mirava a riunire, in un unica seppure articolata formazione, forze laiche e cattoliche di ispirazione riformatrice.
     La rinuncia della Cesare Pintus a schierarsi politicamente in modo netto, avrebbe potuto – si disse – essere riassorbita dalla contingenza elettorale del 1994, soprattutto a livello locale, con la indicazione di un candidato-sindaco. Altre valutazioni, e soprattutto il caos nell’area politica della democrazia avanzata, impedirono al proposito di farsi realtà.

Il perché di un’intitolazione

     Si è domandato spesse volte perché si sia voluto intitolare l’associazione a Cesare Pintus, personaggio e personalità della vita civile e politica locale ormai fuori dai circuiti della sempre più corta memoria, altro che di quelli che con lui pagarono alti prezzi per restituire la libertà e la democrazia all’Italia in repubblica e di quelli che, dalla semplice sponda della quotidianità, ne seguirono con ammirazione la vicenda anche di pubblico amministratore della sua città. E di quelli, anche, come me e pochi amici che abbiamo scelto l’ideale.
     Il perché di questa scelta (un’idea nata da un colloquio di chi adesso scrive con Aldo Borghesi – il primo studioso di Pintus –, e poi trasferita al primo direttivo ed a Ghirra in prima persona) è presto detto: l’associazione intendeva fare riferimento ad un’area politico-culturale della sinistra democratica di tradizione regionalista, laica e non marxista, e poiché – per far l’appello solamente delle forze partitiche operanti in essa – si era evidentemente riscontrata la pluralità delle presenze, il nome di Pintus è sembrato riassumere, lui sempre militante di partito, proprio quei valori ideali “orientativi” la variegata molteplicità dei soggetti attivi nella migliore politica. Pintus repubblicano e poi gielle e poi azionista, e poi sardista e poi sardo-socialista, alla sequela di Emilio Lussu e nella fedeltà incorrotta al suo Mazzini, copriva al meglio un certo campo di servizio alla democrazia sociale ed autonomistica, e di qui è venuta l’intuizione del valore della scelta quale è stata.
     Unita a queste considerazioni un’altra ve n’era e tutta cagliaritana: la volontà (intesa come necessità di adempimento ad un dovere) di restituire alla città il vivo ricordo di un suo figlio illustre, di un degnissimo servitore del suo “bene comune” in contingenze straordinariamente difficili come sono state quelle della ricostruzione postbellica. Dal risveglio di quella memoria sarebbe venuta finalmente anche la intitolazione di una strada nel raccordo fra il centro urbano e Pirri. (Valga qui come semplice supplemento di testimonianza: una proposta concreta io l’avanzai nel novembre 1988 in un articolo su Confronto, per ribadirla successivamente su La Voce Repubblicana: pensavo alla nuova piazza ospitante l’allora costruenda sede del CIS, a un passo dalla piazza Lussu, quasi a riannodare nella contiguità dei suoli quel sodalizio umano e ideale cui dettero vita Pintus e Lussu ormai nel 1924, alla vigilia delle ultime elezioni libere (o semilibere) prima del ventennio fascista. Proposta poi rinnovata in occasione della presentazione del volume “Cagliari 1889”, presso il salone Casmez della Fiera Internazionale, davanti ad oltre 200 persone che, con gli applausi spontanei, mostrarono di convenire con quella richiesta. Che in epoca più recente fu ribadita, per farsi vincente, dallo stesso presidente Ghirra proprio in occasione della presentazione del libro biografico, in Comune).

Gli onori della sezione AMI

     Risale, salvo errore, al 14 settembre 2001 la intitolazione della sezione sarda/cagliaritana dell’Associazione Mazziniana Italiana, risorta ad Oristano, a Salvatore Ghirra. Ne era allora iniziatore e segretario Lello Puddu, cui sarebbe subentrato Giangiorgio Saba, portatore di un patrimonio morale eccezionale: quello di Michele Saba. Da alcuni mesi ne è responsabile Roberto Pianta, che costituisce un validissimo aggiornamento anagrafico di una tradizione di pensiero che i tristi tempi non riusciranno mai ad affogare. La delibera, approvata alla unanimità, motivava quella intitolazione con le qualità riconosciute nella testimonianza politica e civile di Ghirra: «esemplare figura del panorama politico-culturale sardo, che si è sempre ispirato agli insegnamenti mazziniani».


di Gianfranco Murtas - 05/04/2014



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