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Antonio Romagnino, il Dettori, Alziator e Dessì…

     In occasione del novantesimo della nascita, avvenuta a Cagliari nel quartiere della Marina, di Francesco Alziator e Giuseppe Dessì – subito battezzati entrambi nella chiesa del Santo Sepolcro (dati i lavori in corso nella parrocchiale di Sant’Eulalia) rispettivamente a marzo e ad agosto – pubblicai un corposo libro dedicato alla città com’era in quell’anno – il 1909 –, seguendo una logica quasi diaristica, e nella seconda parte raccogliendo il tanto da me stesso scritto o portato in televisione, tanto su Alziator quanto su Dessì.
     Un ulteriore elemento unificante l’esperienza umana dei due scrittori da celebrare fu la frequenza del liceo Dettori, pur con modalità fra loro assai diverse. Ed a farmi quasi da guida in questa specifica vicenda formativa fu allora il caro professor Antonio Romagnino, che del Dettori era stato per tre decenni (fra anni ’50 e fine anni ’70) indimenticato docente di italiano e latino, prevalentemente nel nuovo stabilimento di via Cugia, ma che del Dettori – ginnasio-liceo allora solidamente impiantato nell’antico convento gesuitico della Marina – era stato, a cavallo fra gli anni ’20 e gli anni ’30, alunno. Pochi anni dopo la fine della grande guerra ed a dittatura fascista già rodata e anzi, tanto più dopo la Conciliazione del 1929, accettata e digerita dalla massa della popolazione.
     S’era prestato, il professor Romagnino, a raccontare della propria esperienza scolastica, perché raccontando la sua illuminava anche le altre, le esperienze cioè di Alziator e Dessì, riferiva di quel corpo docente sufficientemente stabilizzato e dunque forse condiviso, di quegli ambienti anche fisici ospitali-non ospitali che accoglievano le affollate classi di adolescenti provenienti dai quattro quartieri storici.
     Purtroppo questa testimonianza di vita di Antonio Romagnino, riportata nel mio libro
La città chantant, monarchica, clericale e socialista. Diario cagliaritano del 1909 (titolo della intervista: “Il Dettori della memoria e… molto altro”, venti intensissime pagine) e accuratamente rivista, parola per parola, dal professore, non ebbe alcuna accoglienza, anche perché l’associazione Amici del libro – cu mi ero rivolto proprio per discreto consiglio dello stesso professore – mancò l’occasione di darle il necessario fiato.
     La recente memoria partecipata nell’aula magna della scuola (giovedì 25 maggio 2012, al microfono Franco Masala, Giuseppina Cossu Pinna, Gianni Filippini e Paolo Fadda) che ha richiamato, con i toni più giusti, la personalità spiccata dell’uomo, dell’intellettuale, del defensor Karalis, del docente, ben avrebbe potuto essere accompagnata anche da quelle vive parole di Antonio Romagnino doverosamente celebrato a sei mesi, poco più, dalla scomparsa.
     E mentre mi prenoto io per tutta una serie di iniziative (a novembre un reading con proiezione anche di filmati, fra cui uno pregevolissimo e assolutamente gustoso che lo vede dibattente con Cicito Masala la funzione della lingua e della limba in chiave identitaria, e già nelle settimane prossime – nel sito Edere Repubblicane – un resoconto abbastanza dettagliato delle relazioni con i repubblicani sardi, oltreché il testo della testimonianza da lui resami nel 1996 – nel cinquantenario cioè del referendum istituzionale – sulla prigionia in America che, fra 1943 e 1945, lo “rieducò” alla democrazia partecipativa), colloco in questa “stanza” personale offertami dal sito quel testo risalente ormai a tredici anni fa.
     Non v’è in esso un richiamo diretto a motivi interni alla militanza repubblicana, o alle idealità della democrazia repubblicana e sardista in senso stretto: no, però c’è in esso il respiro di un umanista democratico che ha saputo rielaborare i termini dei suoi passaggi formativi, con quel set di opzioni in cui s’affacciano, della storia lontana e di quella presente, i docenti e le figure magne proposte dai libri sui banchi, magari a partire da Giordano Bruno, sorprendentemente rilanciato in epoca fascista dopo che a Cagliari il suo busto era stato sottratto alla vista della gente – là dirimpetto alla Porta Castello – e, dopo un anno e mezzo di buio in un sacco vergognoso, posizionato in un nicchione dell’atrio dell’Università…
     Ma con i professori – Parolisi, Fresco, Azzolina, Valle, Pitzalis e Pittalis, gli echi anche dei Garzia e dei Cantimori, ecc. – e con Giordano Bruno, anche i podestà Tredici, Endrich e Prunas, l’arcivescovo Piovella, le distinzioni dei quartieri cittadini del presente e del passato e le riviste goliardiche del GUF ancora nel presente e nelle illusioni di futuro, il passaggio della guerra e della prigionia, con quel certo “bagno” democratico in America… E dopo quel “bagno” il rimpatrio, il ritorno a Cagliari e nel Castello, la ripresa dell’insegnamento e l’impegno civile sia nella collaborazione e coordinamento redazionale a
Rivoluzione Liberale che nella militanza nel PLI affiancata alla leadership di Francesco Cocco Ortu jr. (con tutte le distinzioni da lui però evidenziate: e sulla scelta istituzionale, monarchica quella di Cocco Ortu, fieramente repubblicana quella di Romagnino, e sulla operazione di assorbimento nel PLI dei quadri qualunquisti, che era cosa che un po’ ripugnava al giovane professore). Questo e molto altro c’è nel racconto autobiografico; molto del mondo intimo e del mondo intellettuale di Antonio Romagnino, partendo da Alziator e Dessì con i loro rispettivi mondi, zampilla dai ricordi a occhi chiusi del professore che rivede tutto come un film…
     Nella ricca produzione letteraria o storico-letteraria di Antonio Romagnino si trovano i compimenti a molti dei percorsi qui affacciati: così è dell’influsso ch’egli subirà, non per una sequela ma per un allargamento della prospettiva politica, guardando a Gramsci e ad Emilio Lussu, oppure dopo a Pasolini, e anche a don Milani o a padre Turoldo e padre Balducci per una certa inedita e moderna visione civile (incluso il range pedagogico) che si alimenta di una esperienza di fede alta…
     Come in appendice, un ultimo riferimento che aiuta a collocare – almeno sul piano dei sentimenti (che sono comunque sempre una grande cosa) – la personalità intellettuale di Antonio Romagnino nel campo largo della democrazia, variamente combinando gli apporti degli epigoni di Cavour e Mazzini, il senso nazionale e l’intenzione o l’aspirazione autonomistica. Trovai il testo della sua tesi di laurea (“Lineamenti storici del giornalismo politico sardo dal 1848 al 1870”) discussa presso la facoltà di lettere nell’anno accademico 1938-39, negli scaffali della biblioteca, anzi dell’archivio del professor Pietro Melis, leader fra i più autorevoli e rispettati del Partito Sardo d’Azione ed a lungo assessore regionale: il quale professor Melis quel complesso elaborato aveva non solo letto ma studiato se è vero che sono centinaia gli appunti e le note a margine e in coda alle pagine... (Avevo cominciato a ridigitare il testo, volevo farne un omaggio speciale al suo autore, riportare questi anche attraverso quelle pagine ai tempi della gioventù, magari per ricavarne una nuova testimonianza autobiografica: sapendo che nell’autobiografia c’è sempre anche una più larga ed intrigante biografia, quella della propria generazione. Purtroppo non ho fatto in tempo a concludere il lavoro).


     «II Dettori della mia adolescenza sfuma in quelle stesse memorie di ragazzi che abbiamo letto in molte pagine di Alziator e Dessì. Entro in quelle aule del ginnasio quando loro escono da quelle del liceo, press’a poco, nella seconda metà degli anni ‘20.
     «Aveva, il Dettori, già la sua vita, allora, anzi l’aveva forse già più forte di altre stagioni. Essendo stato creato, come regio liceo-ginnasio, nel 1859, esso aveva la bellezza di cinquant’anni di vita quando nel 1909 nacquero Alziator e Dessì, e fra sessanta e settanta quando lo frequentarono. Vi si erano formati tutti i professionisti e i protagonisti della vita politica ed intellettuale della città. Anche perché non c’erano allora scuole medie superiori in qualche modo competitive, rivali, come ci sarebbero state successivamente: istituti tecnici e più ancora liceo scientifico. Direi che ora si sono invertite le parti: adesso il liceo scientifico nella borghesia caglia-ritana richiama più giovani di quanto non ne richiamava il liceo classico nel periodo al quale ci riferiamo. Oggi esso ha una funzione diversa. Si trovano dei giovani che non hanno ancora scelto: non è detto che io faccia legge, non è detto che io faccia lettere... Questo, negli anni ai quali ci riferiamo, credo non venisse detto dai ragazzi che lo frequentavano. E anche quando la professione abbracciata li staccava di più, era però sempre centrale e come “blasonato” il fondo umanistico, era considerato formativo sia nella scelta scientifica sia nella scelta propriamente umanistica».
     «Anche andando più in là nel tempo, si potrebbe ricordare che Cagliari ha avuto fra i suoi più noti ingegneri, ex allievi del liceo classico. E allora era ancora più difficile che questo avvenisse. Perché Cagliari non aveva facoltà di ingegneria – avrebbe avuto, più tardi, soltanto il biennio di ingegneria –, e quindi erano maggiori le difficoltà da affrontare, per quanto riguardava il disegno, le materie più tecniche... Invece, il liceo classico era formativo anche di questi uomini di scienze, di questi professionisti tecnici, questa è sicuramente una funzione che il liceo Dettori ha esercitato».

Negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, il “capitolo” è, diciamo così, Gramsci...
     «Antonio Gramsci, dopo aver fatto scuole difficili, private e pubbliche, nell’Oristanese, deve a questa sua frequentazione del liceo Dettori il suo affacciarsi alla pubblicistica. Ebbe la fortuna di avere fra i suoi insegnanti Raffa Garzia, il quale scoprì la vena di Gramsci. E quando quel giovane gli chiese di scrivere qualcosa per L’Unione Sarda, di cui Garzia era il direttore (e suo padre ne era il comproprietario in quegli anni), lui liceale negli anni 1908-11 ebbe subito una corrispondenza.
     «Il primo scritto di Gramsci che si conosca è, in un certo qual modo, “dettorino”. Perché nato da questa frequentazione che poi assomiglia a quell’altra, più tarda, che fa accettare il Dettori da Giuseppe Dessì prima sempre scontento, e s’identifica in Delio Cantimori. Basterà leggere i Diari di Dessì per vedere quanto è stata tormentosa, ripugnante e fastidiosa la stagione al Dettori. Sono giudizi severissimi nei confronti di insegnanti che noi, invece, abbiano amato».

E’ la stagione dei professori Parolisi, Nucciotti, Fresco, soprattutto Azzolina, insomma, nomi presenti nella vita civile, non soltanto culturale, della Cagliari che passa dal giolittismo al fascismo...
     «Sì, c’è l’esperienza personale di un professore che, fra l’altro, ha il suo busto di benemerito sostenitore nell’ospedale civile di Cagliari, Francesco Parolisi, che fu docente amicissimo dei suoi studenti per le sue invenzioni, le sue lezioni creative. Era professore di latino e greco, ma io lo ricordo anche per... la battaglia di Waterloo, perché prendeva gli spunti più disparati e più lontani per fare lezione. Invece la stagione dettorina di Dessi fu drammatica. Peraltro ce ne erano state altre di esperienze negative, anche all’Istituto industriale.
     «In sostanza, tutti gli studi liceali sono da Dessì malamente condotti, lo salvò Delio Cantimori che valse per lui quello che era valso Raffa Garzia per Antonio Gramsci. Cantimori corrispondeva a quel Dessì segreto, sommerso, che aveva scoperto nella casa villacidrese del nonno la biblioteca nascosta, che gli aveva fatto leggere libri filosofici che non potevano essere letti da un adolescente e che gli avevano reso ancor più ostica la scuola che frequentava. Lui già si librava, andava lontano...
     «Lo stesso Angelo Nucciotti, professore conosciutissimo, trattato male. In questi appunti di Dessì. Francesco Parolisi è chiamato – vado a memoria – ignorante, birbante..., insomma se ne esprime un giudizio fortemente negativo, il che è però la rivelazione di un carattere molto difficile, il carattere di Giuseppe Dessì, che poi continua anche quando lui farà lo stesso mestiere che ha accusato. Si racconta che Dessì avesse, dopo la laurea tarda, una supplenza. Laureato alla facoltà di lettere di Pisa – mentre Claudio Varese, il suo futuro mentore, si è laureato alla Normale, cui si accedeva con più difficoltà –, Dessì ha una supplenza al Dettori. Scoppia una cagnara ed egli lascia l’aula gridando: ho gettato perle ai porci... Pare che non abbia più insegnato al Dettori e che il preside di allora – negli anni ’30 –, il preside Alessandro Ferrari, noto come “Raspino”, diede ragione a quell’opinione che ci si era fatti di Dessì. Era un uomo molto brusco Giuseppe Dessì. Lo sarà ancora negli anni avvenire, nel tempo della sua maturità, che però conosco meno. Adesso è uscito un secondo volume della Jouvence, sempre curato da Franca Linari, però il primo è proprio quello, diciamo così, pensoso della creazione, ma tormentato molto dall’esistenza, sempre incapace di collegarsi e di vivere con gli altri».

Gli anni “dettorini” di Dessì – come di Alziator – sono quelli immediatamente post-bellici e che arrivano al primo fascismo. Ma, come lei ha accennato, il liceo-ginnasio che si era impiantato nell’antico convento gesuitico della Marina, già vantava mezzo secolo di storia. E qualificante di quella storia, mi pare, era stato anche lo spirito interventista che aveva preso docenti e ragazzi nell’imminenza della prima guerra mondiale. Concorda?
     «E’ vero. Il Dettori fu anche culla di un certo patriottismo interventista. I giovani del Dettori si distinguevano nelle manifestazioni che, fra l’altro, avevano una meta vicina: mi pare di ricordare che il consolato austriaco stesse in via Manno, e ad imbrattarlo di inchiostro, a farlo bersaglio di calamai erano gruppi del Dettori, e si imbrattava anche il monumento a Dante, che era vicino alla scuola, alla sinistra del portone d’ingresso nella piazzetta. Avevano una tecnica particolare, da specialisti... I “dettorini” espressero il loro interventismo, con gli stessi calamai con cui avevano coperto d’inchiostro il busto dell’Alighieri, fin dalla sua erezione, nel 1913».

Come lo spiega?
     «Per capire questo si deve vedere soprattutto il pensiero ed il sentimento dell’epoca, sul versante della borghesia. Questa Cagliari che si è appena fatta – d’altra parte non sono passati molti anni dal capovolgimento che provoca l’abbattimento della città murata, la fine della città piazzaforte militare –, questa città borghese si fa sentire anche nelle scelte scolastiche, nelle scelte amministrative con l’età bacareddiana... Poiché stiamo percorrendo l’età bacareddiana, che si spense nell’immediato primo dopoguerra, nel 1921, questa età si deve vederla come età patriottica, solidale con gli irredenti di Trento e Trieste, interventista nel blocco democratico dell’Intesa anglo-francese, contro la Triplice alleanza. In fondo Cagliari era preparata a ricevere il fascismo da questa esasperazione bellicista-patriottica che lo precede. Essa, si aggiunga, assorbe il primo interventismo, ma se vogliamo poi mettere insieme interventismo e sardismo, Cagliari non c’è pienamente, ed invece c’è piuttosto Monserrato... ».

Ma intanto arrivano e si affermano le squadre fasciste, e poi il governo fascista, il Regime…
     «Gli anni dell’affermarsi del Regime non segnano una vera e propria soluzione di continuità con quelli precedenti. Lo stesso clima di prima della guerra era vissuto, ancora, lungo gli anni ‘20. C’era tenace, per esempio, la memoria di un liceo Dettori che aveva formato intere generazioni, in una città che non conosceva mutamenti, viveva un tempo lento. I personaggi di allora diventavano anche personaggi del dopo. Per esempio Liborio Azzolina, professore di italiano, ed Ulisse Fresco, docente della stessa materia, sono personaggi che li hanno conosciuti, e fatti “propri”, un po’ tutti, anche se i loro insegnanti non sono stati precisamente né Liborio Azzolina né Ulisse Fresco».

Lei è uno di questi?
     «Sì. Non ho avuto né l’uno né l’altro. Io ho avuto Nicola Valle nei due anni in cui ho fatto il liceo, perché il terzo anno l’ho saltato. Nicola Valle era un giovane intellettuale fresco di laurea..., però gli altri due – che erano poi fra loro diversissimi (qualcuno dice che il più ricco di un approfondito sapere fosse Fresco) – erano docenti “condivisi”. Indubbiamente il cattedratico più affascinante era Liborio Azzolina, il dantista era Liborio Azzolina, il conferenziere era Liborio Azzolina, e se ne ha una appendice negli anni immediatamente posteriori alla seconda guerra mondiale, quando Nicola Valle gli fa inaugurare il ciclo delle letture di Dante, che saranno portate a termine entro i dieci anni successivi. Tutti i cento canti saranno letti. Il primo commentatore chiamato portava il nome illustre di Liborio Azzolina, nell’aula magna dell’Università di Cagliari.
     «Allora Cagliari appena riprendeva a vivere, dopo gli anni dello sfollamento, che erano stati quelli in cui Nicola Valle, a Isili, aveva fondato l’associazione degli “Amici del libro”. Valle era un consigliere nazionale della Dante Alighieri, era anche un dantista, e tra le sue cose più importanti certamente ci fu questa lettura complessiva della Commedia, che fu fatta sì da docenti locali, ma anche da intellettuali che Valle aveva la possibilità di chiamare appunto perché consigliere della Dante Alighieri. Voglio dire che negli anni che intercorrono fra la prima e la seconda guerra mondiale c’è come un’eredità di quelle atmosfere anche culturali del primo ’900.
     «Azzolina siciliano – aggiungo – rimane a Cagliari, è sepolto al monumentale di Bonaria. Aveva sposato una professoressa di scienze, una Pisano, imparentata con la famiglia dell’attuale rettore dell’Università... Egli ha ancora nella memoria questa immagine dinamica, intraprendente, di conferenziere chiamato qua e là... Fresco era un po’ più restio a pubbliche espressioni, a pubbliche manifestazioni, ed ha lasciato di sé un’immagine forse più sbiadita, ma certamente è stato anche lui uno dei maggiori protagonisti della vita del Dettori, fra gli anni 1910-20 e 1930-40».

Lei come ricorda di aver vissuto, già nella sua pre-adolescenza, e poi dopo, l’esperienza “dettorina”?
     «Io sono entrato al Dettori – se vogliamo vedere nel Dettori anche il ginnasio inferiore – nel 1927, a dieci anni. Ho continuato, dopo il triennio, col biennio del ginnasio superiore – fra il 1930 ed il 1932 –, e sono infine approdato al liceo che ho frequentato fino al 1934, interrompendo il triennio ai primi due anni, anticipando cioè di un anno la maturità classica. La mia era la sezione G. Alla selezione imposta dal tempo, non tutti i licei hanno resistito in Italia. A Cagliari funzionava, press’a poco dagli stessi anni del Dettori, il ginnasio Siotto, che aveva sede in Castello e che, in sostanza, si curava dello studio dei cinque anni: ginnasio inferiore e ginnasio superiore, senza liceo. Invece il Dettori fu liceo-ginnasio, o ginnasio-liceo, fin dalla sua origine. Ora non saprei se precisamente dal 1859, ma nella memoria nostra il Dettori è stato ginnasio-liceo sempre.
     «Fino a molto dopo la seconda guerra mondiale, il Siotto è stato soltanto ginnasio. Accoglieva soprattutto seminaristi, ed io ci metterei questa vicinanza del clero che, come dire?, aveva interesse al fatto di essere nel cuore di Castello, a caratterizzarlo, a distinguerlo dal Dettori. Le sue aule erano alle spalle della chiesa di San Giuseppe, dove in epoca relativamente recente sarebbe andato l’Artistico. In antico c’erano state le Corti d’appello. Insomma, l’area che è stata vissuta, abitata, fin dal 1600, dagli scolopi che officiavano a San Giuseppe. Forse anche questo ne ha differenziato la storia ed il carattere dal nostro Dettori».

Lei aveva casa a Castello?
     «Io sono nato in via Lamarmora e in quel tempo, quanto meno per una ragione pratica, avrei dovuto iscrivermi al Siotto: avrei fatto cento metri, sarei sceso in due minuti in piazzetta San Giuseppe... Non l’ho fatto perché, evidentemente, i genitori, che erano quelli che imponevano l’orientamento scolastico, avevano scelto diversamente. C’era come una graduatoria in quel tempo, in sostanza: io devo mettere i miei studi in quella coscienza più o meno consapevole, più e meno lucida, che gli studi avrebbero dovuto assicurare il decollo sociale. Essi volevano dire miglioramento della propria vita, affermazione professionale e civile, ecc. ecc. Quello che non si fermava alle elementari, aveva la possibilità, o credeva di averla, affrontando gli studi superiori, di salire nella scala sociale, anche se soltanto di una piccola città di provincia.
     «Il Siotto, penso che ai miei e ad altri – cioè ai genitori dei ragazzi miei coetanei residenti a Castello ma frequentanti il Dettori – abbia dato come un’idea di ristrettezza, una specie di chiusura, anche se poi assicurava lo stesso titolo dopo i cinque anni ginnasiali, fra inferiore e superiore. Perché questo? Perché anche noi respiravamo la “corsa al mare”, il desiderio di uscire dal Castello, che era come uscire da un’area sociale che aveva visto il dominio, magari forse buono, chissà, di una aristocrazia, intanto decaduta gravemente, che non contava più nulla, mentre cresceva una borghesia che per affermarsi, per arricchirsi, aveva bisogno di sciogliersi e liberarsi... e allora il Dettori può aver esercitato anche questo fascino, rispetto o a dispetto del Siotto. Il quale, peraltro, ha continuato anche ad essere frequentato magari da chi veniva da Marina o da Stampace o da Villanova, cioè in salita, non in discesa...
     «Ma noi – dico noi perché questa frequenza del Dettori la vedo allargata, e potrei sciorinare i nomi dei “dettorini” nati in Castello e che il ginnasio non hanno pensato lontanamente di farlo appena fuori dell’uscio di casa –, noi il Dettori lo vedevamo già un passo avanti, anche se nel concreto non lo era. Era un ginnasio come gli altri, non credo che avesse neanche superiorità didattica rispetto al Siotto, ma rappresentava un di più, rispetto al Siotto, proprio in quella gestione sentimentale della cosa che ai genitori dei ragazzi faceva prefigurare un accre-sciuto decollo sociale».

Invece, voi ragazzi, alla fin fine i diretti interessati, non avevate voce in capitolo?
     «Certo che, ripensando a queste dinamiche dei rapporti dell’andare e del venire fra Castello e gli altri quartieri, Santa Caterina rappresentava il contrario esatto del Dettori. Perché quello che noi col ginnasio abbiamo cercato fuori del quartiere dove abitavamo, proprio perché lo potevamo cercare, alle elementari erano quelli di fuori della cinta del Castello che dovevano venire a cercarlo nella città più intima. Dovevano salire fino a Castello per frequentare le elementari al Santa Caterina. Non c’era ancora il Riva, allora, pur essendone stati deliberati la costruzione ed il finanziamento da una qualche giunta guidata dal sindaco Bacaredda. Ma quando Bacaredda muore, il Riva non c’è ancora. Perciò tutti quelli che abitavano in Villanova, che abitavano in viale Diaz, fecero le elementari a Santa Caterina. Vittorio Tramer, dell’offelleria notissima, abitava in piazza Martiri, che non è Castello, Gianni Agus, anche lui, abitava in piazza Costituzione, che non è Castello, Angelo Dessi, che è stato un medico molto noto, abitava in viale Diaz... Santa Caterina, allora come oggi, aveva due ali: una si affacciava sul Terrapieno, nella via Fossario – e lì era l’ingresso nostro, dei maschi –, l’altra era quella di via Canelles, da dove entravano le bambine, separate sempre da noi altri. Non esistevano le classi miste.
     «Anche Alziator, otto anni prima di me, ha studiato lì. Chissà, forse anche Giuseppe Dessì. La sua età corrispondente agli anni delle scuole elementari coincide col tempo di guerra. Suo padre era al fronte, ed è probabile che sua madre se ne fosse tornata più stabilmente a Villacidro, nella casa di famiglia».

L’inesistenza delle classi miste conferma la vigenza di un modulo didattico antico...
     «E’ così. Dicevo prima della netta demarcazione fra classi maschili e classi femminili, nelle scuole, tanto alle elementari quanto al ginnasio. Non ricordo se quando io mi sono maturato questo ancora durasse, certo è che l’introduzione delle classi miste si è progressivamente esteso, si è fatto più diffuso soprattutto nel secondo dopoguerra. Nel Dettori ricordo benissimo che la sezione B del liceo era femminile, era quella sezione che aveva dato forse il maggior numero di studenti alla facoltà di lettere, un numero maggiore rispetto a quello dei “dettorini” maschi, dal 1927 al secondo dopoguerra. E’ un gruppo molto folto nella mia immaginazione, e in esso inquadro Dolores Ghiani».

Lei viveva nella via Lamarmora, e anche Alziator. Possibile non vi siate mai incontrati da ragazzi?
     «Io ed Alziator siamo nati o cresciuti nella stessa strada, ma questo l’ho saputo attraverso le sue confessioni letterarie, da un Alziator che, direi, è sempre uno scrittore autobiografico. Lui l’ho conosciuto relativamente tardi, un po’ più direttamente quando sono rientrato dalla prigionia, nel 1945. E invece, prima da ragazzini, e cioè a distanza. Questo non si avverte nei più giovani d’oggi…, perché sembra un paradosso dire che noi del ’17 vedevamo quelli del ’21 assolutamente ragazzini, molto più piccoli di noi. Poi abbiamo fatto la guerra, la seconda guerra mondiale, insieme. Ma la fascia che sentivamo più vicina era quella più anziana, eravamo più con quelli del 1914-15 che non quelli del 1920-21. Alziator era però del 1909, e questo faceva la distanza.
     «Indubbiamente. Francesco Alziator nella mia vita ha rappresentato un personaggio che già si faceva conoscere per la sua stravaganza, per l’indole vivace. Si capisce, Cagliari era allora una città che aveva una misura in cui cose di questo genere venivano notate, pubblicizzate, diventavano non maldicenza, un chiacchiericcio... e quindi, ecco di Francesco Alziator – sarà stato quando io avevo una quindicina d’anni – era popolarissima l’immagine di un giovane che, in un luogo nuovo per i cagliaritani di un più antico ceppo, e cioè le case popolari delle Ferrovie dello Stato, amoreggiava, amoreggiava senza fine».

Stravagante Cucuccio a vent’anni…
     «Il luogo era nuovo, fra la parte finale della via Sassari ed il viale La Playa. Lì Cagliari aveva iniziato ad espandersi, verso la fine degli anni ’20, le case sono mi pare del 1930-32. Il nucleo forte della città rimaneva certamente il Castello, forse Marina. Per certi cagliaritani che consideravano le antiche appendici come terre remote, quella nuova zona di espansione, a ponente, doveva essere remotissima. E lì Cucuccio ha conosciuto su fastiggiu con Dolores, e anche chi non l’ha visto... l’ha visto, perché era raccontato da tutti questo amoreggiare senza fine, questo dialogare senza fine con quella creatura dolce e delicata che era Dolores Ghiani. Adesso forse fa sorridere un raccontare <su fastiggiu, allora... doveva essere un modo antico, perché su fastiggiu era un fastiggiu, anche se questo che incantava la gente, che alimentava il chiacchiericcio, forse era parlato, o sussurrato... era magari solo l’occasione di simpatizzare, a distanza».

Vogliamo accennare all’università di Cagliari di quegli anni, gli anni di esordio della facoltà di lettere alla quale s’era iscritto Alziator? Tentiamo così una lettura parallela delle due esperienze…
     «Gli anni universitari di Cucuccio sono i primi della facoltà di lettere a Cagliari, che aveva sede allora nel palazzo di via Università. Quei primi studenti erano anche diventati famosi per le passeggiate lungo il viale che separava la facoltà di lettere da quella di farmacia. Dire facoltà fa pensare a grandi edifici, oggi, ma allora non erano altro che baracche, grandi baracche, tanto lettere quanto farmacia, e in mezzo c’era questo viale di Ficus retusa, la pianta più amata e più odiata dagli studenti di Cagliari. V’erano queste passeggiate, allora, e parve ad un certo punto destassero qualche clamore, qualche scalpore, perché uno sconosciuto, o uno che non si era potuto individuare, dipinse di rosso, in una notte, le piante, volendo colpire le coppie che... davano scandalo. La vernice rossa diventò un fatto di protesta contro l’immoralità, contro quegli sbrigungius che si sbaciucchiavano. Il fatto si può collocare intorno al 1930, e allora Cucuccio aveva 21 anni ed io forse 13. Era circolata al Dettori l’eco di quell’episodio. Frequentavo il ginnasio superiore, o forse la prima liceale...».

Ecco, torniamo al Dettori di quegli anni, i primissimi anni ‘30, anni già di Regime…
     «Vivevo nella scuola gli umori che aveva vissuto Alziator. Non c’erano stati mutamenti importanti fra gli anni della sua frequenza e quelli della mia, ad iniziare dal personale docente. Gli italianisti famosi erano quelli, i professori di latino e greco gli stessi... Al più potremmo aggiungerne due, ugualmente noti: uno più giovane, ma diventato poi più famoso dell’altro, e cioè Luigi Pitzalis, ogliastrino, mentre l’altro, di origine sassarese, Pittalis – il padre di Paola Pittalis, che ha scritto di recente una Storia della Letteratura di Sardegna –, anche lui professore di latino e greco di grande forza. Era di un livello molto vicino a quello di Francesco Parolisi, il sacerdote che abitava in Marina e diceva messa alle Cappuccine. Ecco si potrebbe dire che la stagione che sfocia nella seconda guerra mondiale è quella stessa degli anni immediatamente successivi alla fine della prima: una stagione che esprime una certa quale compattezza di idee. Ricordiamo che il Dettori, anche nella sua materialità, è quella lapide ai piedi della quale si accende una lampada che porta l’elenco dei caduti nella prima guerra mondiale, poi trasferita dalla vecchia sede alla nuova nel 1953…
     «La lapide fu dettata da Liborio Azzolina, lo stesso che aveva dettato o almeno avuto l’idea del monumento a Dante nel l913. E c’è una continuità anche in questi episodi: ci sono il dantismo, il patriottismo, anche un pizzico di nazionalismo poi raccolto ed esasperato da altri, ma che aveva, se la vogliamo dire tutta, un’origine risorgimentale.
     «In fondo, le generazioni che hanno ripetuto le idee e le parole come patria e nazione, si riconoscevano eredi più o meno meritatamente della vicenda risorgimentale. E d’altronde si vedeva la continuità ideale oltre che generazionale con i Riva Villasanta. Alberto Riva Villasanta divenne un mito, era l’ultimo dei caduti della grande guerra. Mi pare di ricordare che anche lui avesse studiato al Dettori, lì comunque sorse il suo culto, che ancora resisteva negli anni ’30, magari strumentalizzato a fini nazionalistici.
     «I professori portavano la camicia nera, ma va detto che qualche volta essi erano ricordati per qualche motto che fa la differenza. Mi ricordo, per esempio, di Fresco che venne nella nostra sezione per una lezione di filosofia e storia, perché il professore incaricato mancava, e ad un certo punto accadde qualcosa che può anche spiegare quello che dice: ma questa è diventata ormai una caserma! Noi vi leggemmo vagamente una sua riserva. Condannava, evidentemente, una turbolenza, diceva “no” a una di queste manifestazioni irreggimentate e, che so, all’ingresso sempre più frequente della divisa nella scuola…
     «Lo scatto del professore si spiega con la sua formazione che era di un’altra epoca. Era già vecchio Ulisse Fresco e, insofferente, condannava questo irreggimentare. Non era difficile fare una sorta di sommessa critica, una sommessa opposizione a un certo andare delle cose».

Come si insegnava la storia in quel tempo?
«La storia non l’ho imparata, al Dettori. Tolto qualcuno, i docenti titolari della mia sezione non erano i migliori, e comunque c’era un tale alternarsi che mi è mancata qualsiasi continuità didattica. Diciamo che i professori che ho avuto più a lungo, ripensarli oggi a distanza di più di settant’anni, sono stati Valle e, poiché Francesco Parolisi era andato in pensione quell’anno o quasi, e dunque non l’ho avuto, Luigi Pitzalis, docente di latino e greco... La storia l’ho avuta insegnata da Ulisse Fresco, che però era supplente nel corso, titolare di italiano ma supplente di storia... Veramente credo di aver imparato pochissimo, la cosa non è entrata, sennò ricorderei meglio, ed è come avessi cancellato dalla memoria».

E la filosofia?
     «Ecco, leggevamo invece opere molto importanti di filosofia. Non leggevamo soltanto Platone, ma leggevamo anche Giordano Bruno. Erano approfondimenti da collocare nel secondo anno del liceo, quando si studia il Rinascimento, e in quell’età che combatté l’oscurantismo medievale Giordano Bruno c’entrava. E questa presenza del ribelle, dell’odore del ribelle, in un tempo in cui il Regime fascista e la Chiesa si avvicinavano, suona, a distanza di tempo, come un gesto coraggioso. Arrivo a dire che negli anni successivi questo sarebbe stato impensabile. Nell’imminenza della seconda guerra mondiale, o alla fine del fascismo, credo non fosse facile adottare il libro di un ribelle. Ma è quasi incredibile mettere questo libro nell’epoca della Concilia-zione o subito dopo, diciamo negli anni 1930-35, che è poi l’epoca in cui si fanno gli amori più smaccati, in cui si tiene a far funzionare il Concordato, a crederci cioè in termini quasi di “nuova civiltà”, non solo in termini di fredda diplomazia. Sono gli anni, cioè, in cui si riesce a trovare nel fascismo un’interpretazione del cristianesimo, e forse l’inverso, e nasce la famosa apologia di Francesco d’Assisi, “il più santo degli italiani ed il più italiano dei santi”, come lo definì il Regime.
     «Siamo proprio alla metà degli anni ’30. Francesco d’Assisi entra nella scuola, ce lo porta là il Concordato fra la Chiesa e lo Stato fascista. Giordano Bruno è un azzardo, l’azzardo di un professore...».

E l’ora di religione in classe?
     «L’insegnamento della religione a scuola era quanto di più noioso si possa immaginare. Intanto non era assolutamente immaginabile che potesse esserne affidato l’insegnamento, come è avvenuto molto tempo dopo, ai laici, e laici due volte: e perché non vestivano il saio o la veste talare, e perché presentavano la religione come cultura. Questo non è avvenuto. Perciò abbiamo avuto insegnamenti di religione insopportabili, catechistici, così come era la vita religiosa del tempo. Allora, questo orrore che adesso ho risvegliato io lo lego a un orrore simile maturato, postumo – si capisce –, che è la preparazione catechistica alla prima comunione. Io allora militavo nella Congregazione mariana. Anche questa militanza deve essere vista in quella vocazione borghese a ritrovarsi in tutte le sedi e in tutte le circostanze, e dunque anche nella Con-gregazione mariana».

Che allora era la Congregazione, se non sbaglio, dei De Magistris, degli Aymerich, ecc.
     «Sì, e che si era da poco trasferita dalla sua sede più antica, nel Seminario tridentino di via Università, dove occupava una stanzetta al piano terra, alla chiesa dei gesuiti di San Michele, nel luogo alto verso la cupola, dove s’apriva questo locale in cui veniva ammesso per la preparazione chi doveva fare la prima comunione, fatta di un insopportabile rigorismo, con rigida la domanda e rigida la risposta. Nella mia vita, se c’è stata una vicenda educativa, formativa insensata, che non ha lasciato tracce profonde e positive, questa è stata la preparazione catechistica alla prima comunione. Quella era le prassi diffusa allora: ti davano un libretto da imparare a memoria, con le domande e le risposte, che dovevano essere rigorosamente studiate a memoria. E così anche la cerimonia in chiesa aveva questo carattere ufficiale, corale, un po’ marziale».

Era allora arcivescovo di Cagliari monsignor Piovella. Come inquadra la personalità di questo prelato tutto religione nei rapporti col Regime?
     «Monsignor Piovella era a Cagliari dal 1920, in Sardegna da tredici anni: era stato ad Alghero e poi ad Oristano. Ma il monsignor Pioverla che viene a Cagliari non è quello che appartiene alla storia della Chiesa. Nella storia della Chiesa Ernesto Maria Piovella è quello uscito dagli oblati di Rho, capace di una grande forza, di una grande energia, e mandato perciò in Romagna, cioè in terram infidelium. Quello invece che viene, come premio, mandato in Sardegna non è più lo stesso. O forse lo è all’inizio, anche la Sardegna è terra di missione. Non lo è però quello che viene a Cagliari, dopo l’episcopato di monsignor Rossi. Se è vero che l’antifascista è Giuseppe Cogoni – Peppineddu, su pirresu, vescovo a Nuoro, ma del clero di Cagliari –, però non si può dire che Piovella abbia accarezzato, almeno all’inizio, il Regime. E dunque, si deve arrivare alla fine degli anni ’20 – ecco, press’a poco all’epoca del Concordato dopo la crisi dei rapporti del fascismo con l’Azione cattolica, nel 1931 – per vedere questa figura paterna, affettuosa, quella da cui i cagliaritani, in fondo, vogliono essere accarezzati. Il prelato forte, battagliero, pugnace, che ti prende per il collo, credo che non piacesse, allora piaceva di più quel “cari figlioli...”, con cui Ernesto Maria Piovella sempre esordiva, parlando ai fedeli».

Monsignor Piovella come una “carezza”
     «Sì, poteva essere che compensasse un po’ la marzialità del Regime, ma era la sua parola, che aveva un tono paterno, ad accrescere e diffondere la notorietà di Ernesto Maria Piovella anche fra i lontani, e anche fra noi ragazzi che avevamo subito il rigorismo catechistico senza entusiasmo. La sua parola io ce l’ho nell’orecchio, era una carezza. Direi che la processione del Corpus Domini, che percorreva tutte le vie principali di Cagliari e che era accompagnata da una folla immensa, anche da una folla immensa alle finestre, e che approdava nello spiazzo del circolo “San Saturnino”, in via Fossario, ecco quella processione trovava un senso più profondo nella parola finale di Piovella. La devozione sarebbe stata annullata senza quella parola che i cagliaritani aspettavano, come una carezza.
     «I tempi erano difficili, e quando dico difficili non intendo che lo fossero economicamente o soltanto economicamente, anche se comunque Cagliari era una città povera che aveva grossi problemi sociali, un’indigenza grave. E però io credo che quel consolatore di anime che è stato Piovella, facile ed alla buona, sapesse rispondere al bisogno della gente. C’erano queste adunanze, e alla fine Amicarelli, il cattolico antifascista, gridava forte: “Viva il papa!”. Ma senza che se ne cogliesse il significato polemico e si riuscisse a distinguerlo dai più frequenti “Viva il duce!”. E invece si sentiva sempre più vicino quell’abbraccio che Piovella offriva dal pulpito o dall’altare maggiore della Cattedrale, e rinnovava più caldo al termine della processione del Corpus Domini.
     «Io monsignor Piovella credo di doverlo leggere così, per comprenderne le ragioni del consenso che ha avuto e che lo avvicina agli altri, di diversa estrazione e formulazione, di diversa condotta, e che pure hanno avuto il medesimo consenso. Il consenso lui lo ha avuto come padre affettuoso. Poi non lo so cosa sia avvenuto nel rapporto con il Regime, questo non lo so. Certo l’immagine non è la sola, non c’è solo quella voce, c’è anche il Piovella nel palco dei gerarchi: io sfilo e c’è il federale, c’è magari il ministro di passaggio, ci sarà forse anche Mussolini, non lo so, e col podestà, immancabile, c’è lui, c’è la massima autorità della Chiesa cagliaritana. Sarà così anche negli anni della legislazione razzista, della legislazione pagana contro gli ebrei».

Oltre la scuola, oltre l’organizzazione cattolica magari, come entrava allora, nell’informazione e nella formazione dei giovani, la stampa locale?
     «Fra le fonti formative, negli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza non c’era il giornale, non c’era il quotidiano locale, sembra strano... Forse sono le immagini più perigliose quelle familiari, ma io L’Unione Sarda la vedo stesa sul tavolo, a casa, ed a leggersela dalla prima riga sino all’ultima è zia Cheta, la sorella di mio padre che, nubile, viveva nella casa del fratello, la quale trascorreva la sua giornata, senza mai uscire di casa, impegnata nelle faccende familiari e domestiche. E leggendosi il giornale dalla prima all’ultima riga, magari chiacchierando con la dirimpettaia. Eravamo nella parte alta di via Lamarmora, oltre sa prazzitta sulla destra salendo, quasi di fronte a palazzo De Magistris. La mia casa precedeva quella dove è nato e vissuto De Candia, il famoso tenore dell’800, il “Mario” come è meglio noto. Bene, è in quel primo piano che zia Cheta legge, bene aperto sul tavolo, il giornale che senz’altro sarà stato portato da mio padre.
     «Ho una memoria viva anche di chi lo faceva, il giornale. Qualche nome era arrivato: un Ballero, un Pintor fra i collaboratori fissi, l’abbiamo conosciuto dopo, ma c’era già in quegli anni. Il fascismo controllava tutto, già nella testata dove c’era quel correttivo “dove il duce vuole”... C’era dentro la presenza del fascismo. Le sue pagine, dopo la grande politica che tutti i giorni esaltava le realizzazioni del Regime, contenevano la piccola cronaca locale, le notizie dei circoli rionali, della vita del partito in città, della federazione dei fasci».

C’erano, in quegli anni della sua vita di giovane ormai ventenne, o poco più poco meno, delle esperienze culturali di un certo rilievo compiute fuori della scuola?
     «Sì, almeno due. Queste si chiamavano essenzialmente Sud-Est e, ma un po’ meno, Ariel. La prima è una rivista che sul declinare degli anni ’30 – diciamo 1935-36, quando io sono matricola – fu pubblicata dal gruppo universitario fascista. Il titolo è un po’ strano e viene dall’aver l’ideatore tenuto presente, e citato anche, mi pare, un discorso di Mussolini, il quale aveva indicato nel mezzogiorno e nell’est le grandi linee di sviluppo dell’Italia imperialista, quindi la rivista era fascista – non avrebbe potuto non esserlo –, non lo nascondeva e si ricollegava alla politica più discussa e negativa di Mussolini che era l’imperialismo. Allora c’era la guerra d’Africa, la guerra d’Etiopia. Poi ci sarebbe stata la guerra di Spagna, e Mussolini mirava anche all’oriente o al medio oriente. La rivista era stata ideata, e se non ideata comunque diretta, per lunghi anni, da Lino Businco. Ed ha cessato di uscire alla vigilia della seconda guerra mondiale, quando Businco se l’è portata a Roma.
     «Ad esprimere un giudizio inoppugnabile ed austero su Sud-Est c’è Sotgiu, Girolamo Sotgiu, che ha scritto che tutti quelli che hanno fatto cultura, che sono stati in diversa misura forti intellettuali post-bellici, sono stati prima collaboratori di Sud-Est, ad iniziare da Renzo Laconi, oppure dal suo compagno che era Gino Forresu, professore di diritto costituzionale... ma tanti, Massacci che era un altro compagno di Renzo Laconi, socialisti e comunisti negli anni della guerra e dopo, o che erano rimasti fascisti, come Businco stesso, o diventati liberali, facendo insomma esperienze che li avevano staccati più o meno rapidamente dal fascismo».

La domanda che viene spontanea, spero non indiscreta, è la seguente: che cosa ha prodotto quella esperienza?
     «Io credo un esercizio. Per molti è stata l’occasione offerta a cimentarsi nella scrittura, a provare quella specie di gioia, di gioco gioioso che è lo scrivere ed il firmare, di gratificazione in se stessa che è il comporre.
     «La collaborazione era gratuita, naturalmente, la rivista avrà raggiunto forse appena mille persone – ignoro quale ne fosse la tiratura –, ma essenzialmente di positivo c’è stata questa possibilità di fare esercizio, che è stato utile soprattutto per quelli che hanno continuato ed hanno fatto esperienze più continue e più rigorose. Io non la cancellerei, questa esperienza giovanile, tutt’altro: prima di tutto perché c’è stata, ma poi perché c’è stata anche per la vita degli altri che pur non vi si sono poi più riconosciuti idealmente, o ideologicamente, insomma che hanno superato quel momento.
     «Invece l’altra rivista, Ariel, è legata al movimento futurista. Ha gli stessi collaboratori, o quasi, di Sud-Est. C’era o c’era stata, nei collaboratori, una specie di repulsione per il novismo in genere e quel passaggio al futurismo ritardato era un po’ un paradosso. In Sardegna c’era una linea tradizionalista, che può identificarsi in Marcello Serra e in Cino Zedda, e di contro ad essa si colloca quel futurismo ritardato di Gaetano Pattarozzi. Questi avrebbe conosciuto Filippo Maria Tommaso Marinetti a Venezia o, forse, l’anno dopo a Napoli, e comunque i littoriali di Venezia e di Napoli, temporalmente contigui, 1936-37, sono l’occasione dell’incontro. Certo è che Marinetti si trovò di nuovo ad avere una certa notorietà in questa marca di frontiera che era la Sardegna. Perché Marinetti – come anche lui racconta nei suoi Taccuini 1915-1921, che sono stati pubblicati dal Mulino nel 1987 a cura di Alberto Bertoni – con la Sardegna aveva avuto un rapporto molti anni prima, all’inizio del fascismo. Ricordava la sua venuta a Monserrato. Qui aveva abbracciato il “bolscevico medagliato” Emilio Lussu, e si abbracciano perché, anche se l’uno è già fascista e l’altro è antifascista, la guerra combattuta li univa. Il combattentismo è questa amalgama, e sono bellissime parti, quelle dei Taccuini, perché lì c’è la poetica di Marinetti: il futurismo è erotismo, a Monserrato le donne abbracciano Marinetti, poi con qualcuna di queste egli viaggia da Cagliari a Sassari e la velocità della macchina è prefigurazione dell’amore, desiderato o consumato non ha importanza.
     «Ecco, il futurismo del 1921, che è il più immediato, è ben diverso dall’altro del Pattarozzi degli anni ’30 inoltrati. Intanto perché è rumoroso, fa clamore e prevalentemente nella città, dove si tengono riunioni e letture pubbliche e specie della Mula di Maccallé, che era il pezzo forte delle recite marinettiane. Ne scoppiavano polemiche, si ricordano i furiosi battibecchi che in teatro nascevano tra conservatori tradizionalisti e futuristi, con le accuse spesso irriducibili da parte dei tradizionalisti, che vedevano nel futurismo quello che era in sostanza, qualche cosa cioè di non sempre severo».

Quelli erano i termini del confronto culturale negli anni del consenso. Mi domando, sotto il profilo della sensibilità civica od amministrativa, se l’istituzione locale, il Comune cioè, abbia costituito in qualche modo anch’esso un valore di riferimento per la società cagliaritana di allora, e magari un’occasione di partecipazione per voi giovani. Quale è la sua opinione?
     «La presenza del municipio nella vita cittadina, anche di noi giovani studenti liceali od universitari, era notevole. Il Regime sceglieva il podestà in una fascia che aveva un forte legame con la tradizione. I podestà erano di famiglie borghesi che avevano un consenso nella città. Il podestà apparteneva a su connottu cagliaritano – meno forse Tredici, ma certamente Endrich e ancor di più Prunas, che apparteneva a quel Castello borghese-aristocratico di un certo tempo – e quindi questo rendeva autorevole, implicitamente, il potere. Erano uomini, soprattutto Endrich e Prunas – Tredici non ho fatto in tempo a conoscerlo, allora ero proprio bambino –, di una certa visibilità positiva, erano i capi di certi ambienti, persone garbate, e lì può esserci stata l’origine dell’accettazione da parte dei più. Poi si sono anche, forse, guadagnati qualche merito, perché la notorietà di Enrico Endrich, negli anni postbellici, è nata di lì. Endrich è un ex fascista che già alle seconde elezioni politiche in regime repubblicano viene eletto al Senato con facilità. Aveva in piazza un consenso clamoroso. Agli occhi di molti cagliaritani – ma su questo ci vado con cautela – egli ha rappresentato una certa continuità, forse, con la città più remota, magari bacareddiana, pragmatica.
     «Un merito postumo io gliel’ho anche riconosciuto ed è quello guadagnatosi nella vicenda della difesa del centro storico, ponendosi in questo anche in contrasto col Regime, che era il regime degli sventramenti. Il Regime fascista è indicato dagli ambientalisti come devastante. Endrich, invece, si sarebbe opposto alla costruzione di una strada che era stato progettata e che avrebbe dovuto aprirsi press’a poco all’altezza della statua di Carlo Felice ed attra-versare Marina. Questa benemerenza pare che sia meritata».

Galantomismo a parte, le benemerenze di Endrich come amministratore sono pari alle sue responsabilità come gerarca di una dittatura, anche se la cosa non ha pesato nella recente (e per me inaccettabile) intitolazione a lui del Terrapieno... Gli anni della guerra maturarono in lei sentimenti antifascisti?
     «Dopo i miei due anni di prigionia in America, rientrato a Cagliari nel 1945, ho iniziato ad insegnare. Non avevo ancora trent’anni. Politicamente ero vicino a Francesco Cocco Ortu, nel Partito liberale italiano, ma da posizioni liberal, come di si dice in America, cioè democratiche, riformatrici, e anche da posizioni repubblicane. Quelli sono gli anni del referendum istituzionale.
     «Nel 1948 sono anche tornato al Dettori, per una supplenza, e mi pare che la famosa statua di Dante fosse stata portata via da poco, concessa a Nicola Valle che, fattala restaurare dalla scultrice Anna Cabras Brundo, dopo qualche peripezia negli anni della guerra, quando era finita all’interno, al piano terra del vecchio liceo, l’aveva collocata, o stava per collocarla all’ingresso degli “Amici del libro”».

Chissà quanti ricordi le suscita quel busto di buon padre Dante!...
     «Il busto di Dante era nella piazzetta Dettori, dicevo prima, dal 1913. Quando mi sono maturato io, stava ancora al suo posto. Continuava ad essere colpita dai calamai degli studenti – ognuno andava a scuola col calamaio –, e magari la fantasia esagera e lo vede grondante..., comunque c’era. Valle l’ottiene nel secondo dopoguerra, lo affida alla scultrice Anna Cabras Brundo per il restauro.
     «C’è un legame in questo, l’ho già accennato: Nicola Valle si ricollega a Liborio Azzolina..., c’è un filo rosso non facilmente definibile, ma sicuramente esistente fra l’iniziativa anche del leggere tutto Dante, agli “Amici del libro”, e questo recupero della statua che rimonta agli anni di Bacaredda sindaco, alla vigilia della prima della prima guerra mondiale. Il busto di Dante è una espressione di quel certo sentire la cultura nazionale che ha però valore universale, presente nell’umanesimo caratteristico degli studi assicurati dal liceo classico».

Vogliamo andare, o tornare, ad Alziator? Riprendiamo dalla comune residenza castellana...
     «Fra la mia casa e quella di Alziator, in s’arruga deretta, c’erano forse cento metri, o poco più. Io ero vicinissimo all’Istituto magistrale, e invece Cucuccio pare di ricordare che sia nato, o almeno abbia abitato da bambino nella prima salita dopo su Porciu, dopo il portico di palazzo Boyl, dov’era la torre dell’Aquila. Era già quasi fuori il quartiere perché, superato il portico, si era già nella via Mario De Candia, da dove si accedeva al teatro, e da lì in pochi secondi si raggiungeva porta Castello, la porta dei Leoni cioè, e la via Mazzini.
     «Alziator – se non l’ho individuato da ragazzo o quando io ero bambino – credo di ricordarlo, di averlo visto nell’immediato secondo dopoguerra, forse era il 1945, o il ’46. L’ho sempre guardato come uno stravagante, con quella famosa mantella che gli era stata fasciata attorno, forse di origine militare. Egli è anche ricordato come un ufficiale che ha vestito la divisa con una certa estrosità. Ma questa grossa mantella lui l’ha portata ancora nel dopoguerra, che sono anni in cui c’era una certa stravaganza di necessità, una stravaganza che nasce dall’indigenza. Si possono ricordare anche professionisti noti che hanno utilizzato la tela dei materassi per farsi l’abito. Cucuccio aveva evidentemente salvato questa mantella scura e la vestiva ancora, quando le divise non si portavano più, a guerra finita. E con quella aveva iniziato, forse, anche le sue celebri passeggiate. Era un grande passeggiatore.
     «Il nostro rapporto come uomini di scuola è stato alquanto discontinuo, perché Cucuccio aveva ambizioni alte, in sostanza voleva raggiungere la cattedra universitaria come invece, purtroppo, non gli è riuscito. E questo è accaduto perché qui a Cagliari, a torto o a ragione, è stato molto combattuto, addirittura anche perseguitato da chi contava nell’Università di Cagliari intorno agli anni ’50-60. E allora Cucuccio, come si sa, lascia Cagliari ed ha l’incarico all’Ateneo di Sassari. Viaggiava. Ma anche le cattedre che aveva avuto da insegnante alle medie e alle superiori non erano quelle che vagheggiava uno come lui, con una qualche ambizione. Aveva aspirato a insegnare alle scuole superiori o, più precisamente, al Dettori, ma credo che al Dettori non abbia insegnato mai, o forse vi abbia prestato qualche supplenza remota... La cattedra coperta, di ruolo, nella professione di insegnante è la cattedra di italiano e storia nell’Istituto tecnico agrario, alternata a questa cattedra universitaria di storia delle tradizioni popolari, nella facoltà di magistero a Sassari».

Come si spiega l’ostilità del mondo accademico verso uno studioso tanto originale quanto prolifico?
     «La ragione di questa avversione subita anche dallo scrittore costituisce un problema eterno, irrisolto. Questo, secondo me, è esasperato, e non se ne esce, perché non riusciamo mai ad ammettere che egli è sostanzialmente uno scrittore, e che è lì la definizione più rispondente al valore reale di Francesco Alziator. Perché non si usa questo termine nei suoi confronti? Perché quello è un termine riservato soltanto al narratore o al poeta lirico, senza distinzione fra il poeta in limba e il poeta in italiano. E c’è poi il problema delle fonti dei suoi studi, che è stato sollevato contro Alziator, ma che proprio nella Storia della letteratura di Sardegna avrebbe dovuto trovare, e io credo che trovi, la sua smentita. Il libro è del 1954, ed a pubblicarlo è stata benemerita La Zattera, cioè la casa editrice di Antonio e Giovanni Cocco, ma non ha trovato molti adatti a leggerla e a studiarla, a riconoscerne il valore, fra gli intellettuali sardi. Da questi egli è stato impallinato in più occasioni, ma soprattutto lo è stato proprio per la sua Storia della letteratura di Sardegna. Sì, impallinato, ma egli era già preda di un vecchio conflitto fra Cagliari e Sassari, che è un conflitto fra la cultura urbana e la cultura agro-pastorale di cui l’intellettuale sassarese si fa assertore e difensore.
     «Di questo conflitto fu protagonista negativo Antonio Pigliaru su Ichnusa, il quale condanna la sua Storia della letteratura di Sardegna, e non le attribuisce nessun valore scientifico, che è la cosa più grave. E poi entra anche nelle assenze e nelle presenze. E’ una stroncatura fatta da un intellettuale valoroso, che indubbiamente ha influito sullo scarso successo immediato, e anche sullo scarso successo postumo, più lungo nel tempo, che ha avuto questa Storia della letteratura di Sardegna.
     «Secondo me questo pone lo stesso problema di tutto il resto: la sua è la storia letteraria, che raccoglie il meglio degli scrittori sardi, realizzata da uno scrittore. Quali sono le prove? Le prove un lettore non le dà mai con facilità, però io dico che se, ad un certo punto, nella Storia della letteratura di Sardegna di Alziator ha un posto così rilevante Vincenzo Sulis, non è pensabile che Vincenzo Sulis abbia tanto posto e anche un intero capitolo se non perché è un uomo straordinario, cioè un uomo che merita di essere raccontato. Voglio dire che quel capitolo prova la letterarietà dell’Alziator, prova lo scrittore con cui dobbiamo venire a patti, e invece paradossalmente questo è tornato a suo danno».

Lei si è schierato dalla parte dell’imputato...
     «Io l’ho conosciuto dopo, in verità, questo problema sollevato contro di lui. Devo confessare che immediatamente non me lo posi il problema, se Francesco Alziator con la Storia della letteratura di Sardegna avesse dato un contributo per una migliore conoscenza della nostra produzione letteraria, e però fosse venuto fuori ancora come scrittore. Io l’ho letto sempre come scrittore.
     «Intanto devo confessare che non ho avuto mai grande interesse per le scienze sociali, le scienze umane nuove, anzi per essere più espliciti, le ritengo responsabili dell’abbassamento della cultura del paese, perché sono più orecchiabili… psicologia, sociologia, tutte cose approssimative, ci ho sempre rinunciato facilmente, non ho letture sull’argomento né vicine né lontane, non mi hanno interessato, posso avere torto, posso essere in ritardo, non ha importanza. Allora, in Francesco Alziator io non ho mai cercato lo studioso di tradizioni popolari, non m’interessa questo suo aspetto. Anzi, arrivo a dire – e sarò maldicente – che forse ci siamo anche soffermati troppo ad illustrarle queste cose, conoscendo spesso il difetto delle enfatizzazioni di queste tradizioni popolari nostre che contengono anche i vizi forse grossi, malsani, quelle cose a cui alludeva Emilio Lussu quando è tornato dal mondo in Sardegna, e diceva: per carità, non siamo né migliori né peggiori degli altri, finiamola una buona volta. E però non abbiamo finito, ed allora di qui questa ed altre consimili stroncature moleste.
     «Ma L’Elefante sulla Torre, che sono ben cinquecento pagine, dove lo vogliamo collocare? Sono le pagine che sono apparse nel giornale, quindi con una forte presenza dello scrittore, con forte impegno nel creativo. E sono un libro denso, un libro pieno di immagini, di colore, di lingua. Alziator ha proprio una ricchezza linguistica... E qui bisogna stare attenti anche, però, a non cacciarlo fra gli “storici della città”, come si fa, e fare dei suoi eventi un facile rievocatore. Lui è, invece, un inventore, un trasfiguratore.
     «Io gli metto vicino, per giocare a carte scoperte, un illustre uomo che ha anche lui una visione di Cagliari analoga, ed è Giovani Spano, che ha scritto nel 1861 Guida di Cagliari e dei suoi dintorni. Perché glielo metto vicino? Intanto per una cosa: anche quando si scrivono guide, genere che si potrebbe dire subalterno, secondario…, quel che si vuole, si possono anche scrivere pagine letterariamente forti. Le pagine di Giovanni Spano più belle sono, per esempio, quelle in cui rievoca la figura del Lonis, lo scultore, quello che ha anche scolpito la statua di Sant’Efisio, e ne fa un Vincenzo Sulis. Perché anche lui è un attaccabrighe, unu zaccarori di Marina, che fra l’altro aveva fatto esperienza di Napoli e dello spagnolismo napoletano, scendeva nel porto e si metteva a scazzottare… Questa pagina coloratissima è della penna di Giovanni Spano, cioè di uno che è relegato come uno che ci avrebbe dato notizie, e invece le sue non sono nozioni fredde, sono nozioni calde. Se il calore non lo senti, non… sai leggere.
     «Ma Giovanni Spano lo cito vicino ad Alziator, ancor di più per quel titolo di Guida di Cagliari e dei suoi dintorni. Se c’è uno che ha letto Cagliari a quel modo in cui l’aveva letta Giovanni Spano, questo è Alziator. Alziator ha il senso del quartiere e della differenza esistente fra i quartieri. Se fosse uno studioso omologherebbe tutto e tutto sarebbe dato, diciamo così, per non eccitare confronti e differenze. E invece lui le cita continuamente le differenze: Stampace, Castello, Marina, Villanova sono diverse. Mi riferisco a tutte le pagine giornalistiche diventate L’Elefante sulla Torre.BR>      «Ma anche nella Città del sole questo è evidente, questo senso della città che cresce, si diversifica; si diversifica anche in quel crescere lontano, remoto, che lui fa rivivere nelle sue pagine. Per andare più a fondo nella Città del sole, dove hanno posto le feste, le ricorrenze – La città del sole è come una specie di calendario, direi che la festa ha una misura topografica, la festa è un luogo, un habitat, una popolazione, la festa è l’umanità – come si fa a non vedere in tutto questo la letteratura? cioè l’opera letteraria, la creazione…? Non me lo metto il problema se le notizie siano vere, esatte, scientifiche e rigorose.
     «Lui cita spesso – come se da lontano sentisse la vicinanza del nemico – le fonti d’archivio. Anche questo dovrebbe pacificare, ma non pacifica, e forse gli nuoce. Cioè – si dice – non è né l’uno né l’altro, perché nel momento in cui ti dicono che è studioso di tradizioni popolari è per rimuoverlo un po’, e poi quando fanno l’analisi concludono che non è né l’uno né l’altro. Questo è un reato grave, è una forma di persecuzione postuma... ».

Insisto: perché tanta avversione, tanto pregiudizio?
     «Perché – diciamocelo francamente – Cucuccio paga a distanza l’ipocrisia della gente che ne ha fatto un dissipato, un sempre-fidanzato, insomma une scanzonato, leggero. E invece non è così. Quello è un sovrapporre un’immagine prefabbricata a una creatura che nel libro si apre a una fioritura di temi straordinari.
     «Ne ho riletto in questi giorni le pagine dedicate a fra Nicola da Gesturi e siamo davanti a un laico, la penna è la penna di un laico. Ma un laico vero parla di religione con grandissima serietà, sa parlare della religione con grandissima serietà. E oggi siano arrivati al punto che confondiamo il laico col laicista... E questo laico che è Alziator disegna due presenze, ma una di grande forza teologica perché – io l’apprezzo – racconta quel che è avvenuto nella sua mente: la materializzazione nella sua mente sconvolta della vivente immagine di fra Nicola, che lo soccorre e lo libera dalla crisi che lo sconvolge, è una forma di miracolo prevista dalla teologia.
     «Quella coloritura, dicevo, l’ha cercata lui, non si può pensare che siano stati magari una scivolata o un riempitivo, no, c’è proprio il gioco delle immagini, la ricerca delle cose che va dicendo. Come fai a farne un uomo di scienza? dico, per poco un uomo di scienza, quanto basti per non dire un letterato. E invece si deve dire: un buon letterato».

E di proverbiale umanità, se posso aggiungere io…
     «Tutti avevano un modo particolare di fargli festa, lui diceva parolacce sarde, salutava rumorosamente, aveva il gusto della battuta frizzante e aveva anche un’altra qualità, aveva una capacità di fraternizzare, di non far sentire mai il peso degli anni, il peso della notorietà. Lo facesse con un collega più giovane poteva essere anche facile e scontato. Lo faceva però anche e soprattutto con povera gente... Ho assistito ad incontri suoi del tutto occasionali, almeno due volte. M’è rimasto in mente l’incontro con un suo soldato. Lui ricordava molto il periodo che aveva trascorso sotto le armi, e questo suo ex commilitone, questo soldato che, diciamo, era stato suo dipendente, gli veniva incontro, si metteva sull’attenti, aveva un giaccone che gli andava grande e a gran voce lo salutava: “Su capitanu Alziator!”. E lui lo abbracciava, lo baciava, gli dava uno strattone e quello rimaneva adorante. Questo incontro poteva essere avvenuto altre volte, ma lo ricordo in prossimità della torre di San Pancrazio, con questo ex soldato che, venendo dal Terrapieno, era salito, poveretto, col peso già degli anni, ma anche di tutta la sua indigenza, fin lassù, e sulla cima, ridente, quasi ad aspettarlo, il suo capitano».

La vostra è stata una frequentazione assidua?
     «Noi siamo stati in rapporti assidui agli “Amici del libro”, ma ci vedevamo molto come frequentatori della Biblioteca universitaria, e anche in piazza Martiri. Erano rimasti luoghi che avevano mantenuto un senso per noi, quando invece la città non li tollerava più. Mi riferisco agli anni ’60, ai primi anni ’70. Avveniva allora che ci trovassimo in piazza Costi-tuzione... Lui già aveva preso casa in via Angioy, e lì, in quella piazza, correvano fra noi poche ma intense parole. Erano incontri volanti, una pizzicata, un colpo di fioretto, scherzosi molto. Credo che con me abbia avuto un rapporto buono, facile, ma neppure posso dire che si sia mai lamentato dei suoi avversari, che pure c’erano... Aveva un grande spirito di tolleranza, Cucuccio. Si caricava di questa sua spensieratezza, di questa sua superiorità festosa, non tracotante. Non era un arrogante, Cucuccio era un uomo festoso, un gaudente, ma nel senso migliore della parola».

E il suo rapporto con Giuseppe Dessì?
     «Dessì credo proprio di non averlo mai visto, e quindi ho un ricordo remotissimo. La prima volta che ho sentito il nome di Dessi ero sotto le armi ed ero a Siena. C’era un ufficiale villacidrese il quale mi disse: legga San Silvano. Il libro era del 1939, mentre l’incontro al quale mi riferisco si deve collocarlo nel ’41. Io non lo avevo letto allora, lo lessi più tardi, e lessi anche la presentazione che ne fece, lusinghiera, Claudio Varese.
     «Lui era già provveditore agli studi a Sassari, però la formazione di Dessi era già avvenuta, perché erano già passati gli anni cagliaritani, per quanto turbatissimi, ed erano già passati anche gli anni pisani, ma ancora più importanti di tutti – l’ho scritto in un libretto che è uscito proprio questi giorni per i novant’anni di Varese – erano passati anche gli anni ferrare-si».

Anni cruciali nella vicenda anche umana, non solo intellettuale, di Dessì...
«Quando Claudio Varese e Giuseppe Dessì si incontrano e con loro c’è Dessì Fulgheri, il fratello di Giuseppe, e c’è l’altro sardo che è Mario Pinna, ispanista più tardi all’Università di Urbino, allora erano tutti e quattro insegnanti alle superiori. E il loro amico più caro è Giorgio Bassani, il quale riconosce, qualche anno più tardi, che senza quei sardi non avrebbe risolto i suoi gravi problemi politici: il reo, il perseguitato dal fascismo... L’educazione alla libertà l’attribuisce a questi mentori che sono i quattro che ho citato e senza di loro neppure sarebbe stato lo scrittore che è divenuto... Riconosce a Dessì ed a Varese e agli altri – ma non facciamo graduatorie –, insomma a tutti e quattro, impulsi straordinari nella sua vita. Erano i sardi di Ferrara. E dunque per Dessi, compiutasi già l’esperienza pisana e quella ferrarese, l’esperienza sarda sassarese è un ritorno, un ritorno molto importante: perché c’è in lui quello che ha detto Bassani, ma anche perché quella sua consolidata umanità è provata da una fonte coeva».

Si riferisce forse a Riscossa, il settimanale di Spanu-Satta? Spanu-Satta era un cattolico che però militava allora nell’azionismo dei Mario ed Ines Berlinguer, degli Stefano Siglienti..., per dire soltanto dei sassaresi che però avevano messo tenda a Roma, magari anche in via Tasso...
     «Sì, proprio nel 1944 – e durerà fino al ‘46 – si stampa a Sassari una delle cose più belle che abbia prodotto la Sardegna post-fascista ed antifascista: il settimanale Riscossa. Dessì ne è fra i promotori, lui di professione socialista. E la cosa più bella è che vi sono molte mani d’oltre Tirreno, e fra esse quella di Lanfranco Caretti, che era un ferrarese anche lui, e quelle che ancora si stringono fra loro, di Bassani, e Dessi Fulgheri, e Varese, e Pinna. Si ritrovano a pochi anni di distanza. Gli anni ’30 sono finiti, c’è, in sostanza, la presenza di un antifascismo sofferto. Poi per Dessì, dopo il 1948, ci sarà il salto definitivo a Roma, e quindi la sua più salda fortuna letteraria».

Abbiamo ripassato, sull’onda delle memorie personali e, ovviamente, della loro rielaborazione avvenuta nel tempo, insomma delle riflessioni che l’esperienza di vita, la ricerca culturale compiuta e l’impegno civico le hanno suggerito, ben settant’anni di vicende cagliaritane irraggiate, per così dire, dall’erma di Dante sentinella “dettorina”. Abbiamo ripassato, anche se soltanto per flash, pagine private e pubbliche sue e della città, lungo le stagioni della tormenta bellica e del primo dopoguerra, del fascismo divenuto regime, del secondo conflitto mondiale, della ripresa democratica e ancora più recenti. Abbiamo puntato i riflettori su una generazione – una soltanto fra le molte altre – che si è formata nelle aule liceali ed è poi avanzata nella società civile valorizzando un talento speculativo o creativo, o sfogando una vocazione pedagogica. La scuola ed i libri hanno unito lei alle grandi ombre – che poi sono grandi luci – che abbiamo seguito con sentimento d’amicizia ed ammirazione: Francesco Alziator e Giuseppe Dessì. In conclusione, professor Romagnino, una domanda “pesante”: quale può essere, quale è, nell’oggi concreto della nostra società cagliaritana, pure essa ormai investita dalle ragioni dell’informatica e della globalizzazione, il senso e l’eredità, direi umanistica, delle esperienze maturate, quelle stesse che, dal Dettori conventuale dagli anni ’20 in qua, lei ha condiviso con i suoi (e anche con i miei) autori?
     «Una delle più gravi lacune della nostra cultura – anche più dolorosa solo che si pensi che parliamo di un Paese “cristiano” – è la mancanza di una cultura della vita e della morte, che ci faccia capaci di corrispondere alla generazione cui apparteniamo, senza abiure frettolose, senza novismi privi del filtro della ragione.
     «E’ questo vuoto a farci non disposti a guardare fissamente all’anagrafe e a freddamente mettere i piedi per terra. Questa è una stagione votata alle tecnologie, e l’errore non è di non prenderne atto, ma quello, invece, di consentire ciecamente ai loro successi e di accompagnarli con tagli netti, con ripudi frettolosi di tutto quello che si lasciano alle spalle. L’informatica e la globalizzazione sono i grandi protagonisti del nostro tempo e lo saranno ancora a lungo nel millennio appena apertosi. E, però, è impensabile che la prima possa assorbire tutto e che possa diventare solo ed unico fine e non mezzo seppure evoluto, e che la seconda assorba ogni cultura e le cancelli e le appiattisca tutte. C’è sempre una voce, un libro, un’opera d’arte, che sembra essersi spenta per sempre, ma è invece solo, per poco o per molto, appena rimossa o dimenticata. E’, invece, come in agguato, e quando che sia tornerà a farsi sentire. Non so se anche questa mia convinzione, trafiggendo circa settant’anni, provenga dal liceo Giovanni Maria Dettori».

Gianfranco Murtas - 14/09/2012


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