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“Quella scoperta asproniana vissuta in Facoltà: con la Arcari e Bruno Anedda,
Carlino Sole e Tito Orrù”: la testimonianza di Maria Corona Corrias


     Tito Orrù, il nostro amico e professore Tito Orrù, l’abbiamo perduto ormai da cento giorni. Era uomo di studi e nostro compagno onesto nell’amore a un certo filone ideale della democrazia italiana e sarda, quello stesso che ci unì e riunì attorno ai grandi nomi di Mazzini e Cattaneo, Garibaldi e Ferrari, Asproni e Tuveri, magari Soro Pirino e Michele Saba sulla scia di un Efisio Tola, ed ai grandi anche della elaborazione e della esperienza del sardismo che a quella maggior cultura politica si riferiva: da Bellieni a Fancello, ai Melis passando anche – perché no? – per Lussu, il Lussu sardista o sardo-azionista, non il Lussu socialista e socialproletario naturalmente.
     Se dovessi dire della frequenza dei nostri contatti degli ultimi tempi (prima ancora che ai loro perché) affidandomi ai numeri, direi che negli ultimi due anni, fra 2010 e 2011, io l’avrò incontrato forse una cinquantina di volte – magari davanti ai visori dei microfilm o nella sala sarda della Biblioteca universitaria, ma anche nella provvisoria sede del fondo bibliotecario Paolo De Magistris (da me allestito e quasi subito smontato) –, ed avrò scambiato con lui almeno altrettante mail. Lo scambio era diventato urgenza.
      Perché? Eravamo entrati casualmente nello stesso periodo in una ricerca su taluni aspetti della vicenda del garibaldino-massone Antioco Sitzia – il capitano marittimo cagliaritano legato alla sfortunata spedizione di Sapri (e per questo finito nelle segrete borboniche) – sicché lo scambio informativo, che doveva poi soddisfare anche un discendente Sitzia di residenza ligure-piemontese il quale interpellava il professore, necessitava di continue messe a punto e aggiornamenti.
     C’era poi il filone, che interessava direttamente il 150° dell’unità d’Italia, dei reduci dalle patrie battaglie (guerre d’indipendenza, guerra di Crimea, campagne antiborboniche e per Roma capitale), per il quale avevo cominciato una ricerca che combinava il sodalizio mutualistico da essi costituito in città alla massoneria cagliaritana che aveva offerto collaborazione e patronato: nel novero erano infatti diversi garibaldini, ed essi erano divenuti forse il primo (per importanza ed impegno) soggetto di studio, in questi ultimi tempi, del professore, dedicatosi alla compilazione di un’anagrafe delle camicie rosse sarde.
     A tale proposito ricorderei che nel maggio 2009 entrambi partecipammo con relazioni al convegno storico organizzato dalla Obbedienza di Piazza del Gesù/Palazzo Vitelleschi su Esercito-Monarchia e Massoneria fra 1861 e 1946: e la sua relazione (successivamente uscita negli Atti) verté proprio sui garibaldini sardi, presentati quasi uno ad uno, e dei quali dette conto anche in altre pubblicazioni, in specie in un quaderno speciale del suo Bollettino Bibliografico e Rassegna Archivistica e di Studi Storici della Sardegna.
     A parte i precedenti incontri asproniani – e ricorderei al riguardo particolarmente quello del novembre 2006 a palazzo Sanjust, quando il gran maestro aggiunto giustinianeo Anania a lui conferì il collare di Galileo Galilei in omaggio alle sue fatiche di studio – richiamerei, del settembre 2010, la serata alla Società Operaia rievocativa dei 140 anni dalla presa di Roma. La cosa, per chi conosce od ha seguito almeno attraverso le cronache giornalistiche i fatti, aveva una sua importanza: perché fra i relatori (parlò lui prima di me) c’era don Mario Cugusi, storico parroco del quartiere della Marina, per tre decenni e più professore di filosofia alle scuole pubbliche, che svolse a braccio un intervento mirabile, molto apprezzato anche da chi, per valori di coscienza o pratica di costume, era lontano da interessi di Chiesa. E con don Cugusi – il quale avrebbe poi celebrato i suoi funerali nella parrocchiale di Santa Lucia – il professore strinse, o rafforzò, allora una amicizia. Insieme avrebbero partecipato a Biella, presso il circolo Su Nuraghe, nel novembre 2011, ad un convegno sulla “Lingua sarda ieri e oggi”. Poteva esserci anche Sant’Eusebio (cagliaritano vescovo di Vercelli al tempo del nostro vescovo Lucifero, che è press’a poco lo stesso di Sant’Agostino e Sant’Ambrogio) ad unirli in uno stesso interesse. Anche perché di Eusebio il professore s’era occupato proprio a Vercelli in un convegno di gemellaggio ideale propiziato dal locale circolo dei nostri emigrati …
     Si sa: a luglio del 2010 don Cugusi era stato rimosso dall’ufficio di parroco di Sant’Eulalia. Quella presenza nel capiente e affollato salone della Società degli Operai, a trattare di Pio IX e Vangelo, storia e fede, risorgimento e Stato pontificio, assumeva quindi, dato il contesto temporale, un significato speciale.
     E dunque monlta parte degli scambi epistolari (e anche telefonici) che ebbi con il professore – che non era mancato alla messa di congedo dalla comunità di Sant’Eulalia da parte di don Cugusi – si volgeva proprio in interrogazioni, mischiate alle questioni risorgimentali e garibaldine: “che novità per don Mario? novità sui ricorsi alla Santa Sede? novità per una nuova assegnazione di parrocchia?”.
     Ma poi, naturalmente, sopra l’attualità bruciante della sorte ecclesiale dell’amico presbitero (in cui vedeva bruciare, chissà, una certa arditezza intellettuale del genere di quella del suo Asproni) e in buona compagnia con Antioco Sitzia, i reduci dalle patrie battaglie ed i garibaldini, i giubilei delle società operaie (brillantissimo il suo intervento a braccio a Serramanna, nella tarda estate 2011, sostenuto dalle slide di Paolo Bullita), c’era sempre lui, il suo e nostro Asproni. L’Asproni che ormai non era più da tempo il personaggio studiato, indagato nei propri scritti epistolari e giornalistici oltreché diaristici o parlamentari (da menzionare, del professore, anche il regesto completo degli interventi pronunciati alla Camera del deputato di Bitti), ma era l’ “amico” Giorgio: presente a pranzo e a cena, nelle lezioni o nelle conferenze e anche nelle confidenze personali sottovoce, negli scambi di routine e nei riposi al mare o in campagna… Perché Asproni si era materializzato nel vissuto quotidiano di molti di noi, si era rivelato al professore e agli altri docenti e studiosi di primo piano – a partire da Carlino Sole e dalla Corona Corrias per restare a Cagliari – ma anche a noi altri di seconda e terza fila, con tutta la sua umanità, il che pretendeva relazione o interlocuzione in uno strano gioco del surreale che non è mai cosa deteriore e in chi ci crede anticipa in concretezza … la comunione dei santi, superando le barriere temporali e riportando la storia all’eterno oggi del paradiso!
     Sì, Asproni era ormai entrato in noi come contemporaneo in carne ed ossa e con lui si dialogava, perché egli per primo aveva compiuto il gesto generoso di darsi a noi attraverso le mille o centomila carte documentarie: pensiero e azione tutto cucito da una singolarissima trama personale in cui entravano, né sarebbe stato possibile il contrario, i fili della sua nascita barbaricina, della sua cultura umanistica classica, della sua formazione ed esperienza clericale, del suo travaglio intellettuale-spirituale-politico per dar corpo, se non sistematizzazione dottrinaria, al proprio “ribellismo” ecclesiale (nella Chiesa reazionaria di Leone XII e Gregorio XVI, col breve intermezzo di Pio VIII), ed alla propria impazienza “italiana” in chiave giobertiana o neoguelfa (negli anni ancora contraddittori del primo Pio IX) …
     Di Asproni e di Tito Orrù, dell’impegno a tutta testa della Facoltà di Scienze Politiche di Cagliari, della sua (mitica) preside degli anni ’50-60 Paola Maria Arcari e dello staff di storici – al tempo giovani e giovanissimi – che al Bittese si dedicarono, ein quel contesto anche del nostro indimenticato amico Bruno Josto Anedda, ho discusso la mattina dello scorso lunedì 16 aprile con la professoressa Maria Corona Corrias, a lungo docente di Storia delle dottrine politiche presso la Facoltà e autrice di numerosi ed eccellenti saggi recensiti dai maggiori esponenti della storiografia italiana, e fra essi quel memorabile “Il canonico ribelle”, che nel 1984 le valse l’associazione alle fasce docenti dell’università. Tutto torna come in un film di ricordi e anche di emozioni. E, potrebbe dirsi ben a ragione, anche di… emozioni dolorose a ripassare i molti nomi dei protagonisti della sorgente stagione di studi asproniani, oggi purtroppo, pressoché tutti, perduti …
     La scena del primo impatto s’apre nelle aule della Facoltà di Giurisprudenza. L’anno è il 1959. Ancora matricola, Maria Corona s’iscrive al corso di Storia delle dottrine politiche promosso dalla preside Paola Maria Arcari, e quell’anno dedicato al pensiero politico di Dante. Partecipa, in assistenza alla docente, anche il giovane (poco più che trentenne) Tito Orrù, ancora fresco dei suoi studi e della tesi di laurea sulla figura di Giovanni Siotto Pintor che lo ha portato a pazientissimi ritrovamenti soprattutto in Archivio di Stato. E sarà infine lui, Orrù, ad assegnare alla studentessa una tesina sulla celeberrima falsa “donazione di Costantino”, insomma su quei documenti utilizzati dalla Chiesa a legittimazione del suo potere temporale. I meriti della ricerca sviluppata presso la Biblioteca universitaria di Cagliari (con autori fondamentali come Lorenzo Valla ecc.) e la felice discussione dei risultati esposti nelle pagine della tesina, oltreché ovviamente dar compimento a quella esperienza di studio, indurranno la corsista a sviluppare, pur all’interno della Facoltà giuridica, un crescente interesse al filone storico, ed in specie – partendo proprio… da Dante – alle intriganti e complesse problematiche delle relazioni fra Chiesa ed Impero (e/o, nel tempo, Stato monarchico assoluto prima, costituzionale poi).
     E’ dentro questa cornice che inquadra la Facoltà di Legge e, al suo interno, il corso di Scienze Politiche, dell’università di Cagliari lungo gli anni ’60, che deve collocarsi l’avventura asproniana di studenti e professori.
     «Proprio per la passione che allora crebbe in me per la materia – confida la professoressa Corona –, mi detti l’obiettivo di concludere gli studi con una tesi di argomento storico. E cominciai per tempo perché la preside Arcari – personalità assolutamente lungimirante – promosse proprio in quegli anni un gruppo che lavorasse intorno alla classe dirigente sarda fra Ottocento e primo Novecento, dal Risorgimento al Giolittismo. E pensò di seguire un criterio puramente alfabetico dell’ideale dizionario nominativo. Si cominciò così con Vittorio Angius, subito dopo veniva Giorgio Asproni …
     «Bruno Josto Anedda era un mio collega di studi, poco più grande di me. Non studiava soltanto, svolgeva anche, professionalmente, una certa attività giornalistica a latere, ma era molto inserito in queste attività di ricerca che portava avanti con metodo e anche con molte intuizioni. A lui la Arcari assegnò la prima monografia, quella appunto su Angius, che sarebbe uscita nel 1969 per i tipi di Giuffrè, l’editrice che collaborava con la nostra Facoltà. Naturalmente nel 1969 io avevo finito già da qualche anno i miei studi universitari, discutendo – era il 1965 – una tesi di Storia delle dottrine politiche con la Arcari e vincendo poco dopo una borsa ministeriale e un incarico di assistente della stessa materia in Facoltà…».
     Interrompo il racconto della Corona Corrias per un affaccio nei miei ricordi personali suscitati dalle rievocazioni della docente: quelli che mi presentano pochissimi anni dopo – gennaio-febbraio 1971 – un Bruno Josto Anedda appena dimessosi da segretario regionale repubblicano, da pochi mesi assunto nella redazione di Radio Cagliari, dopo aver collaborato con alcuni quotidiani – fra essi Il Sole 24 ore – e molte e qualificate riviste, cominciando magari dalle testate informative e di dibattito della locale Camera di Commercio, e passando per quelle fondate da lui stesso, come La Tribuna della Sardegna. Bellissima.
     Figlio di sardi rientrati in Sardegna, nel dopoguerra tribolato dell’Istria, da Pola dove era nato nel 1937, aveva avuto una militanza adolescenziale e giovanile nelle file dell’Azione Cattolica. Aveva poi vissuto la sua stagione del dubbio ed essa – compresa oppure no da chi pur gli era amico – si combinò temporalmente con una crescente simpatia politica verso una formazione di estrema minoranza laica o, nell’accezione tutta italiana della parola, laicista, la quale appariva la migliore erede di quelle radici risorgimentali della patria che egli, da studioso-studente di Scienze Politiche, aveva riscoperto. La figura di Ugo La Malfa egli la riportava infatti ai fondamenti democratici cattaneani forse più ancora che mazziniani, ma in quei rimandi alle origini scorgeva la bellezza di una appartenenza moderna, in una stagione – quella del centro-sinistra moroteo – che si presentava portatore di molte speranze riformatrici. E nel cui pacchetto inseriva anche la radicale revisione delle autonomie locali che l’impianto regionale come attuazione (pur tardiva) del dettato costituzionale integrava associando le regioni a statuto ordinario a quelle di storico statuto speciale (le isole e i territori alloglotti della Valle d’Aosta, del Trentino-Alto Adige e del Friuli-Venezia Giulia).
     E quel che colpisce di quella stagione politica vissuta a Cagliari da un’Edera consapevole di essere estrema minoranza e rappresentata da un dirigente di partito come Bruno Josto Anedda (che, ripeto, al risorgimento democratico era giunto per gli studi, e attraversando o superando le “altre vie” o le resistenze della sua formazione cattolica) era che anche nei documenti politici correnti – inclusa la corrispondenza! – compariva non di rado il richiamo alle radici ideali-ideologiche: a Mazzini associato a Cattaneo, ad Asproni associato a Tuveri! Evidenza di una sensibilità (del tutto scomparsa in questa nostra infelicissima cosiddetta seconda repubblica, tutta al minuscolo!) che ancora aveva una sua ragione d’essere: perché, forse per le riforme istituzionali e non soltanto economiche portate e approvate dalla maggioranza del centro-sinistra, nei primissimi anni ’70 si coglieva un certo persistente spirito costituente…
     Riprendo il racconto della professoressa Corona Corrias : «Bruno Anedda stava già lavorando alla ricerca su Angius quando, in Facoltà, si cominciò a mettere in cantiere lo studio su Asproni. E lì, pressoché immediatamente, fu ancora proprio Anedda ad avere una intuizione, perché disse: bisognerebbe andare dai discendenti, trovare i nipoti e pronipoti e vedere se conservino documenti, e di che tipo. Fu lui a procurarsi l’indirizzo romano del conte Enrico Dolfin, un nipote di Giorgino Asproni l’ingegnere, il nipote carissimo di Giorgio Asproni. Il conte Dolfin era il proprietario dell’immenso fondo asproniano: il diario – quel diario che poi avremmo pubblicato come Facoltà di Scienze Politiche, opera fondamentale per una nuova conoscenza del Risorgimento, e l’epistolario che mostra le relazioni di questo deputato originario del Nuorese, la più periferica dell’Italia di allora, con le personalità di maggior spicco della sinistra democratica nazionale, da Mazzini a Garibldi, da Cattaneo e Ferrari, a Guerrazzi, a Nicotera, a Brusco Onnis, ecc..
     «Bruno portò la notizia in Facoltà, portò alla Arcari l’indirizzo del conte Dolfin, con il quale subito si avviarono trattative condotte in prima persona dalla preside. La quale, scrupolosa come era, non osò mai neppure tentare di togliere dalle… mani di Bruno – che era soltanto uno studente, pur di età e di livello – il merito di quella scoperta e anche il diritto di occuparsi in prima persona del fondo custodito dal conte Dolfin. Le trattative furono lunghe e molto impegnative: giustamente dal suo punto di vista, il conte esigeva la formalizzazione di alcune condizioni, di una certa tempistica anche nella pubblicazione. Forse allora non era proprio possibile prevedere tutte le difficoltà che la lavorazione delle carte asproniane avrebbe comportato, cominciando dalla stessa decifrazione di una scrittura non semplice. Anche per questo si ebbero lungaggini che impedirono oggettivamente di rispettare la tempistica concordata per la pubblicazione – che andò dal 1974 al 1991 –, e comunque questo non comportò problemi particolari con il conte Dolfin che fu molto comprensivo.
     «Dovrei anche ricordare che nel 1967 morì, sessantenne, la professoressa Arcari, alla quale eravamo tutti molto legati anche sul piano umano, non soltanto professionale o accademico. La perdemmo, e fu per la Facoltà una perdita gravissima. A lei subentrò nella cattedra di Storia delle dottrine politiche il professor Marcello Capurso: il quale, potendolo fare, non avrebbe certamente ostacolato in alcun modo la prosecuzione del programma asproniano, fra l’altro anche per ragioni ideali, essendo egli su posizioni culturali e politiche repubblicane. Eppure il professor Capurso mostrò qualche preoccupazione, anzi si convinse della difficoltà, o della impossibilità addirittura di andare concretamente alla pubblicazione. Ipotizzò di andare per stralci, insomma di selezionare l’immenso patrimonio scritto di Asproni. La cui importanza è forse, però, soprattutto nella sua complessità, riconoscibile soltanto se non si interviene a comprometterne l’interezza.
     «L’ipotesi di una pubblicazione parziale, a stralci, ci colpì molto, fummo spaventati per il tanto che avremmo perso, ci dicemmo contrari, anche io ero assolutamente contraria. Cercammo alleati per la difesa del progetto originario, quello concordato dalla Arcari con il conte Dolfin. Trovammo questo alleato nel professor Giovanni Maria Ubertazzi, che proveniva da Milano e insegnava diritto internazionale. In Consiglio di Facoltà sostenne la tesi della pubblicazione integrale, e allora il Consiglio di Facoltà affidò al professor Carlino Sole l’incarico di curare il coordinamento di tutte le fasi di ricopiatura e decodifica, studio e pubblicazione, con l’apparato critico, del diario politico di Giorgio Asproni. Era il 1968, qualche tempo prima della uscita del saggio su Angius. Con Carlino Sole l’altro docente incaricato di curare questa straordinaria offerta che la nostra Facoltà si accingeva a fare al mondo degli studiosi, e non soltanto a quello, fu Tito Orrù. E infatti Carlino Sole – che allora era incaricato dell’insegnamento di Storia del Risorgimento – e Tito Orrù, invece docente di Storia della Sardegna, curarono insieme il primo e il secondo volume dei sette dell’intero corpus, e insieme curarono anche l’intero apparato critico. Circa gli altri volumi, il professor Sole si occupò specificamente del 3° e del 5°, e il professor Orrù del 4° e del 6°; furono nuovamente insieme per il 7°.
     «In questo contesto Bruno Anedda – che, ripeto, fu il … “primo titolare” , perché l’Arcari volle rispettare quella primogenitura nel rintraccio delle carte – ebbe la sua parte. Naturalmente ebbe quella parte che gli fu consentita dalle sue vicende personali: la malattia, fattasi sempre più grave dal 1973, la morte nell’estate del 1974. Bruno poté entrare dunque, essenzialmente per ragioni temporali, soltanto nella pubblicazione del primo volume, uscito proprio nell’anno in cui egli morì. Il suo anzi fu il saggio introduttivo, strettamente biografico, di Asproni, con cui si aprì il primo dei sette volumi. Un saggio al quale giustamente tanti studiosi, negli anni successivi, hanno fatto riferimento».
     Chiarisce, la professoressa Corona Corrias, i tempi e i modi in cui la Facoltà di Scienze Politiche entra nell’avventura asproniana e la cavalca all’inizio con molte difficoltà poi con crescente successo, marcando il proprio accreditamento nei circuiti accademici nazionali e l’aumento di prestigio scientifico e didattico che gliene viene.
     Questa conversazione è partita dalla volontà di onorare la memoria asproniana di Tito Orrù, ma poi è sembrato inevitabile allargare lo sguardo al protagonismo collettivo che coinvolse il corpo docente e in qualche e vario modo anche la comunità studentesca. Debbo dunque, ritornando a Bruno Josto Anedda, aggiungere qualche accenno di testimonianza personale.
     Io (ventenne) lo frequentai molto in quegli anni, partecipando anche a qualche spunta correttiva delle schede del primo volume della serie asproniana; si era nella sede repubblicana, al primo piano di via Sonnino 128, anzi in quella frazione della sede che aveva ingresso autonomo sotto l’insegna dell’ENDAS. Gli detti sempre (per ragioni di mia timidezza) del lei, che era cosa non buona all’interno del partito, e nonostante anche le sue reiterate proteste non mi corressi. In fondo fu lui, senza molte parole, lui con i suoi dialoghi con i democratici risorgimentali chiamati moderni – e aveva ragione! – a indurmi a posizionarmi in modo nuovo rispetto a quella età dei fondamentali moderni dell’Italia una e indipendente e libera seppure non ancora, allora, repubblicana.
     Nella sede del PRI avevamo, proprio nella stanza della FGR, il busto di Bovio, che attraverso tante complicate manovre sono riuscito nel 2008 a ottenere in via definitiva alla Massoneria cittadina, che ne era stata la prima proprietaria fra 1905 e 1910 e fino al 1925, cioè alla perquisizione ed ai sequestri operati dai questurini fascisti. Tutta la nostra sede era abbellita – è il verbo giusto! – dai ritratti (in grigio) su tavoletta dei padri della patria del fronte democratico. Grande il ritratto di Asproni.
     Poi Bruno Josto si ammalò, fu operato all’ospedale civile; lo andai a trovare più volte, si prefigurava il peggio e forse egli era più consapevole di tutti circa quanto la sorte gli riservava. Poi lo frequentai a casa sua, e sentivo la magia delle sue carte di studio, sentivo quel mondo che ribolliva di vita non di morte, che era significativo per il nostro tempo perché gli dettava idealità e incoraggiamento al sacrificio, e non assomigliava per nulla ad un museo. Mi ero stretto a lui, a Bruno Josto, su un doppio fronte: il fronte del depositario di una scienza importante, il sapere della storia bella repubblicana – quella che aveva messo il centro della libertà nel civile e nell’istituzionale (diversamente dai liberali e dai socialisti che quel centro l’avevano collocato nell’economico) –, ed il fronte più personale dell’amico che stava soccombendo al male lasciando impauriti e sgomenti tutti, la giovane moglie a lui così devota e i bambini ancora piccoli, e gli amici della redazione e quelli del partito, in specie i militanti della Federazione Giovanile … Infine andavano a rischiare tutti quei progetti culturali e professionali e politici ai quali egli aveva indirizzato tante energie …
     Un pomeriggio concordai una visita dell’amico Armando Corona a casa sua, in via Giudice Guglielmo, alla Fonsarda. Andammo con una Fiat 500 che era la utilitaria che Armandino guidava in città; mi fece da autista, ed io a lui da navigatore. Arrivammo, si parlò da amici, si tentò – Armandino soprattutto – di distrarlo per il meglio con i racconti delle cose della politica corrente, poi si andò via. M’è rimasta nella memoria come un’impressione positiva di sana distrazione, per quanto poi i problemi rimanevano tutti. E ad agosto ebbe, Bruno Josto, un aggravamento senza più possibilità di recupero. Alla vigilia di Ferragosto ci lasciò. Ricordo che assistetti il celebrante all’altare, nella parrocchia di San Carlo Borromeo, durante la messa dei funerali. Quel sacerdote era don Tarcisio Pillolla, amico di gioventù di Bruno Josto, che molto soffrì – per la sua impostazione mentale e religiosa – quando egli scelse la militanza repubblicana, perché addebitò a quella militanza le mutazioni degli orientamenti di coscienza e spirituali, l’abbandono del cattolicesimo o della pratica cattolica, quasi ad imitazione, un secolo dopo, dei percorsi del caro don Giorgio Asproni.
     Riprende la professoressa Corona Corrias: «Fu un merito indubitabile della Facoltà quello di allargare il proprio sodalizio strettamente scientifico ad ambienti esterni all’accademia. Ma alcuni di questi “alleati” di valore, conoscitori della vicenda risorgimentale – fra essi in primo luogo Lello Puddu –, ci permisero agganci preziosi con personalità della cultura storica nazionale di primo piano, a cominciare da Spadolini, in politica dal 1972 (dunque da prima della uscita del primo volume dei diari) ma evidentemente una autorità assoluta del mondo universitario italiano, e con Spadolini anche Arturo Colombo, e Giuseppe Tramarollo … Conservo delle preziose lettere di Tramarollo, al tempo presidente dell’Associazione Mazziniana Italiana, che sostengono come la pubblicazione dei diari asproniani costituiscano una specie di spartiacque nella conoscenza della storia risorgimentale, soprattutto di parte democratica …
     «Abbiamo avuto con noi, nel tempo, Emilia Morelli – a lungo presidente dell’Istituto per la Storia del Risorgimento, la quale insegnò a Cagliari in anni lontani – e anche Giuseppe Monsagrati, cui dobbiamo alcune importanti recensioni … Poi, per dire dello sforzo compiuto per “universalizzare” Asproni, cioè farlo conoscere, e già prima coinvolgere nella interpretazione delle sue carte altri studiosi, dovrei ricordare i convegni, cominciando da quello del 1979 a Nuoro, presente Giovanni Spadolini, poi quello del 1992 a Cagliari, il terzo nel 2006 fra Bitti e Cagliari, ed altri ancora, magari di minor impegno, fra l’uno e l’altro. La platea degli storici si ampliò sempre più ... penserei ancora a nomi del calibro di Manlio Brigaglia, o di padre Raimondo Turtas ... Ai convegni ciascuno ha partecipato con un contributo originale – penso a Bianca Montale, a Giuseppe Talamo, a Luigi Lotti, al nostro Del Piano ed a Stefano Pira, a Delureanu per la parte slava, magiara e romena dei rapporti internazionali di Asproni –, ciascuno ha portato relazioni, comunicazioni e studi mirati come la Lilliu sui vincoli massonici (materia trattata successivamente anche da Luigi Polo Friz), o la Ferrai Cocco Ortu sui rapporti con Francesco Cocco Ortu sr., o Alberto Contu sui rapporti con Floriano del Zio… E la cosa continua ancora, Asproni non è più soltanto nostro. Sono recenti gli studi anche di Francesca Pau a Roma… quelli che presto saranno pubblicati di Federica Falchi su Asproni a Londra, nella Londra di Mazzini il quale in quel tempo ebbe mille sovvenzioni per la sua azione politica e giornalistica, da inglesi e soprattutto da inglesine… Si sta definendo bene, in crescendo, questa dimensione internazionale di Asproni visto nei suoi soggiorni non soltanto londinesi ma anche parigini … Abbiamo aperto un varco a questo fronte di nuove ricerche. Io ho contribuito, partecipando sempre con relazioni che mi hanno impegnata molto, come “Asproni e la questione femminile”, nel 1992, o “Politica e religione in Asproni” nel 2006. Ma ho cominciato, proprio su questi ultimi aspetti, nel 1984, quando erano usciti appena tre o quattro dei volumi dei diari, con il mio “Il canonico ribelle”».
     Sì, “Il canonico ribelle” della Corona Corrias, esito di ricerche approfondite (nelle curie diocesane o presso i capitoli canonicali di Nuoro ed Oristano, nell’archivio di Stato di Cagliari e Torino, in quello segreto vaticano, in quelli particolari delle congregazioni, nei fondi parlamentari), costituisce a mio avviso un passaggio importante, forse necessario, non soltanto per la ricostruzione biografica generale del personaggio Asproni, ma proprio per la individuazione di quelle permesse morali, e direi prima di tutto mentali e di esperienza vissuta all’interno del clero nuorese dopo gli studi anche cagliaritani, che lo porteranno alle scelte della sua piena maturità, alle scelte del cimento elettorale, della partecipazione – attiva fin da subito – ai lavori della Camera subalpina e poi a quelli della Camera del regno d’Italia.
     I conti sono stati fatti: quasi settemila giorni di lavoro parlamentare, a sommare la durata delle varie legislature cui prese parte, diciannove anni trascorsi fra Palazzo Carignano, Palazzo Vecchio e Palazzo Montecitorio – nella sequenze delle capitali, fra 1849 e 1876, un arco temporale che supera il quarto di secolo. Sono stati contati 776 suoi interventi, fra discorsi in aula, mozioni e ordini del giorno o interrogazioni ecc., la metà dei quali riguardanti la Sardegna e l’altra metà le grandi (e anche meno grandi) questioni d’interesse nazionale. E naturalmente, con tutto questo, le attività parallele, soprattutto quelle giornalistiche, che si facevano piene nelle legislature “buche”, quelle cui egli non partecipò da eletto ma che seguì come pubblicista critico e di parte. Ecco: le premesse di quell’imponente lavoro politico sono nella esperienza di studio (con di maturata competenza giuridica) e di vita clericale – fra insegnamento al Tridentino nuorese ed esercizio degli uffici conquistati (contadore delle pie amministrazioni e avvocato delle cause pie, ma poi soprattutto penitenziere capitolare), ma direi anche fra pratica liturgica (ché prete intero fu!) e consiglio o educazione o catechesi, che è poi il vero e il verosimile dei suoi tre lustri abbondanti trascorsi con la talare … abbuonandogli i tempi del seminario. E il ricco apparato documentario prodotto (45 unità archivistiche riferite al periodo 1838-1849, esposte in appendice) spiega molto … dell’antefatto non solo esperienziale ma anche psicologico e morale.
     Io lessi a suo tempo una prima volta, e poi in replay, “Il canonico ribelle” della Corona Corrias con le umili curiosità, non soltanto con l’interesse, di chi si è formato, anche per valori di coscienza, in un certo cattolicesimo evolutivamente liberale, forse non dotto ma certamente vissuto anche come direttrice di lavoro civile, rispettoso delle distinzioni fra la sfera temporale e quella religiosa. E quel che più mi conquistò, nel racconto espositivo ed interpretativo dell’autrice, era proprio la sequenza coerente – pur con il passaggio dal trotto al galoppo, o dalla dimensione epistolare e/o del confronto interno al capitolo cattedrale di Nuoro (di cui dà notizia anche il più recente “Nuoro e il senato del vescovo” del can. Salvatore Bussu e il bellissimo e corposo saggio di padre Turtas su “L’ambiente ecclesiastico nuorese e la scelta politica di Giorgio Asproni”, consegnato agli Atti del convegno del 2006) a quella pubblica e politica dei manifesti elettorali e soprattutto degli interventi in commissione o nell’emiciclo parlamentare – dei giudizi e comunque delle prese di posizione di Asproni sui diritti dei singoli rispetto all’autorità o all’istituzione. Tutto ciò, è evidente, in una fase storica in cui se nella società laica non si era cittadini ma ancora sudditi, nella chiesa si era soldati d’un esercito regolato da un codice ancora medievale appena rivisto a Trento e forse ancor più irrigidito in logica controriformistica, e non certo comunitari convocati alla sequela nella testimonianza, secondo la metafora evangelica del lievito nella pasta.
     Sicché a scorrere, come la Corona Corrias fa, gli interventi asproniani su materie critiche ed esplodenti come il matrimonio civile o la soppressione degli ordini religiosi, emerge costante in essi un rimando alle ragioni “povere” della fede cristiana – quelle per cui «Il mio regno non è di questo mondo» – alle quali mai abiurò il deputato di Bitti pur nei momenti di più accesa polemica politica tanto contro il clero locale quanto e soprattutto contro il papato e il sistema di potere autocratico o grevemente illiberale dello Stato pontificio, così prima come (con attenuazione però) dopo il 20 settembre.
     E sono illuminanti, io credo, proprio quelle istanze riformatrici, che infine potevano definirsi conciliari (ma del Vaticano II e non certo del Vaticano I), di un Asproni che, “comunitarizzando”, o “degerarchizzando” la Chiesa di Roma, e ridefinendola non potere-contropotere (opposizione strutturale dell’ordinamento civile statuale) ma popolo spirituale presidiato dalla coscienza, restavano comunque interne alla dogmatica cattolica, pur se – come la stessa Corona Corrias individua – il riposizionamento fu anche verso taluni aspetti di quest’ultima. Si tratta di una materia molto complessa, che merita (e in parte, dopo il 1984, ha avuto, come detto) nuovi approfondimenti, favoriti anche dalla esplorazione a tappeto dell’immenso epistolario custodito dalla Facoltà Teologica di Cagliari. Ulteriori elementi di conoscenza speriamo di averli presto da quanto di recente anticipatoci dal professor Luciano Carta, che ha visto carteggi inesplorati rimontanti agli anni ’30 e primi ’40 (proprio per comprendere sempre meglio origini e modalità di quelle “riserve” anche di dottrina maturate poi in “distacco”).
     Gli esempi addotti dalla Corona Corrias non sono da poco: riguardo alla figura di Cristo “il Nazareno” (quasi derubricato in quella appartenenza di stirpe), o alla Vergine Maria, colta più nel suo essere modello di virtù (interiore e sociale) femminile che non nella sua maternità divina preservata dal peccato, o alla natura stessa del sacerdozio com’egli – sacerdote consacrante l’ostia nella messa e attore primo del miracolo della transustanziazione, fino forse al 1850 – poteva intenderla, colpito dalla corruzione pratica dell’alto clero e dalla ignoranza biblica e teologica di tanto basso clero. Ma anche, andrebbe detto – e se ne vedono non rari esempi nel diario – ammirato da testimonianze certe che nel vituperato “ceto nero” potevano scorgersi, nel voto rispettato da taluno datosi tutto al ministero del perdono e della pacificazione, nella austerità di vita e magari nella mistica. Il Vangelo della libertà pareva a quel prete fattosi ormai attore della scena politica, una proposta valida per tutti, opponendosi al Vangelo della verità (intesa qui come dogma e mistero) sia perché quest’ultimo integrava o legittimava un campo di mutue, dolorose ed ingiustificate opposizioni fra gli onesti – quello dei fedeli contro gli infedeli – sia, e forse soprattutto, perché diventava bandiera e copertura non di testimonianza ma di paganesimo pratico dei funzionari del sacro …
     Non pacifiche ma suggestive, riflesse dai documenti consultati, sono alcune delle tesi di fondo della storica riguardo al profilo interiore, spirituale, di Asproni: quel ritenerlo fattosi estraneo al cattolicesimo proprio per restare credente, quel considerare il suo anticlericalismo non solo motivata risposta all’aggressivo e insopportabile clericalismo antinazionale ed antiunitario degli uomini dell’apparato, ma anche strumento della maggior battaglia per il programma appunto nazionale ed unitario, in prospettiva di democrazia e di repubblica, se è vero – come la Corona Corrias sostiene – che i fuochi polemici si fecero meno intensi dopo Porta Pia, cioè dopo che il maggiore e migliore risultato fu conseguito.
     Nelle sintesi che i competenti dell’accademia sarda come di quella continentale hanno tentato, tutto si tiene in Asproni, in questo suo furore morale che patteggia però con la realtà, senza leggerla ideologicamente ma pure sostenendola o affrontandola con la forza dell’ideale: il profilo del democratico nazionale e del patriota sardo, il profilo del legislatore civile e del cristiano consapevole che alla dottrina necessitino altre cornici e altri apostoli. Si ricorda spesso quella definizione che ne dette Angelo Brofferio, giacobino-carbonaro-mazziniano soprattutto libertario e perciò indipendente ed eterodosso, avvocato e poeta, deputato dal 1848, nella sua “Storia del Parlamento subalpino”: «Canonico ed anche avvocato: ma non col diploma forense, non col camice capitolare veniva in Parlamento, sibbene col mandato del circolo popolare di Nuoro, dove la sarda democrazia erasi prodigiosamente infiltrata nelle vene di un prete e nei tendini di un curiale. Alla vasta dottrina di teologo e di pubblicista non era inferiore il fervido ingegno, lo ardito patriottismo. Impiegava la vita cittadina a lottare per la libertà sempre all’avanguardia». Cristiano evangelico di competenza teologica e esperienza clericale, giurista ed umanista, sardo sardista e italiano di forte sentimento nazionale («seppellitemi dove morrò, purché sia terra italiana») e democratico repubblicano, liberista e autonomista.
     Le coordinate spirituali-esistenziali, etico-civili, culturali e politiche di Giorgio Asproni sono molteplici e gli approcci sono sempre parziali. In questo quadro, però, il libro della Corona Corrias (che nel titolo recupera una definizione che del protagonista dette Benedetto Cajroli, appunto “il canonico ribelle”) zooma sul cuore del cuore della sua persona, e questo ne fa, a mio avviso, oltreché bellamente intrigante il racconto certamente anche cruciali e dirimenti i tratti di personalità individuati. E di lui si scorgono le luci migliori in quel suo dichiarato dissenso verso certo materialismo inibente ogni slancio effettivamente virtuoso. Non è che la sua opzione abbracci il misticismo: anch’esso appare per certi aspetti deviante e offensivo nella implicita svalutazione che impone o imporrebbe alla fatica dell’ora-e-qui. L’associazione, per certi aspetti ovviamente non teologici, fra cristianesimo e stoicismo rimanda alla virtù della responsabilità, cioè della risposta a un bisogno interiore: quello di realizzare il giusto, il bene, nella vita privata come in quella pubblica. Sovvengono qui i giudizi sull’avidità mostrata dai quattro generi del Sanna, inizio della fine della famiglia e della loro fortuna industriale e finanziaria, così come i fulmini lanciati sul Cavour, sui piemontesi, sui governi della destra ora per il mercanteggiamento delle sorti della Sardegna ora per gli investimenti infrastrutturali negati o ritardati alla regione ultima d’Italia.
     Ma per altri versi, e di interesse mio più personale, pare molto bello e documentato lo studio della Corona Corrias quando anche si cala nel vissuto di sofferenza di certo basso clero isolano chiamato a dar conto all’autorità ecclesiastica. Fra gli elementi fattuali che “Il canonico ribelle” riporta in emersione – così anche onorando la memoria delle vittime dimenticate – non di poca sostanza sono le disavventure del povero reverendo Cirina, lasciato morire nelle carceri del foro ecclesiastico al Fossario cagliaritano, o del rettore trexentino Ligaluppi (figura di un colto caritatevole “suddito” non passivo dell’arcivescovo Marongiu Nurra prossimo quasi al suo esilio), di cui l’Asproni deputato si sarebbe occupato. Episodi dimostrativi di quanto merito ci fosse nell’istanza cattolico-liberale, laica-laicissima in politica, a pro delle ragioni dello Stato di diritto che non poteva più ammettere riserve di giurisdizione di poteri estranei a quelli costituzionali, in evoluzione liberale. Insomma, proprio le ragioni di quello Stato liberal-monarchico (ma orientato, secondo gli auspici asproniani, alla democrazia e alla repubblica) che, già dai tempi del primo Cavour, puntava alla riforma legislativa in materia ecclesiastica, contro tutti gli ingombri: dalle decime al foro giuridico a tutto il resto …
     In un Asproni ancora interno alla Chiesa, ma dialettico e non obbediente così nel capitolo canonicale di Santa Maria della Neve come nelle relazioni con gli amministratori apostolici reggenti la diocesi (dal Bua amico-nemico al Varesini sassarese) e con il nuovo vescovo Marongiu Maccioni – quest’ultimo mitrato quasi in contemporanea con le dimissioni capitolari del penitenziere esordiente a Palazzo Carignano –, ribolliva uno spirito moderno, che leggeva o forse anticipava – come soltanto una coscienza libera e non allineata può fare – i “segni dei tempi”, per dirla con il Giovanni XXIII della “Pacem in terris!” e con Montini papa conciliare. La necessità e la urgenza della separazione fra Stato e Chiesa, la necessità e la urgenza – avvertita da uomini come Gioberti stesso e presto anche Rosmini – della riforma radicale della Chiesa come ordinamento ministeriale e come popolo.
     Asproni “il canonico ribelle” della Corona Corrias con quel sottotitolo “Pensiero politico e sentimento religioso in Giorgio Asproni” ritengo vada letto – e io almeno così feci , ripassandolo più volte, sollecitato dalle “ondate” della pubblicazioni diaristiche asproniane – in combinazione con quell’altro saggio della stessa autrice, pubblicato anch’esso da GIuffrè ma più d’un decennio prima: “Stato e Chiesa nelle valutazioni dei politici sardi (1848-1853)” prefato da Marcello Capurso. E portante anch’esso una cospicua appendice documentaria (settanta pagine!) in cui ha giusto spazio l’interessantissimo scambio fra l’arcivescovo Marongiu Nurra e il deputato (scomunicato) Giovanni Siotto Pintor.
     Il richiamo al Siotto Pintor riporta inevitabilmente a Tito Orrù, e alla conversazione con la Corona Corrias che aveva lui, unitamente ad Asproni, per argomento. Perché il professor Orrù svolse la sua giovanile tesi di laurea (pubblicata poi, con una ricchissima “bibliografia ragionata e notizie sugli inediti” nel 1966 da Ichnusa per i tipi di Gallizzi, Sassari) proprio sul magistrato-deputato cagliaritano che sostenne l’istanza neoguelfa e, dopo la celebre e deludente allocuzione del 29 aprile (con la rinuncia di Pio IX ad intervenire nella prima guerra d’indipendenza per tema di uno scisma asburgico), la linea del cattolicesimo liberale pagandone non lieve prezzo canonico (la scomunica irrogatagli dall’ordinario dell’archidiocesi). E che sullo stesso Siotto Pintor tenne la relazione di base in un memorabile convegno organizzato dal comitato cittadino dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano di cui egli stesso era il presidente (e tale sarebbe rimasto a lungo) svoltosi nella primavera 1983 al Municipio di Cagliari (ero presente, ricordo fra gli altri il dotto intervento dell’ex e prossimo sindaco Paolo De Magistris). Fra gli intervenuti anche e ancora la Corona Corrias (“Stato e Chiesa nel pensiero di Giovanni Siotto Pintor”), ma anche i professori Brigaglia, Del Piano, Pisu, Sole, Sotgiu,Turtas, Plaisant, l’avv. Siotto Pintor jr., l’indimenticato Giannino Todde, l’on. Umberto Cardia … «Tito Orrù ebbe fra i suoi preferiti, oltre Asproni e dopo (almeno temporalmente) il Siotto Pintor, il Tuveri. a cui si sentiva indubbiamente vicino sul piano ideale. Giovanni Battista Tuveri uomo morale come poteva esserlo un mazziniano e federalista alla Cattaneo, spirito religioso …», e potrebbe anche aggiungersi: doviziosamente attento agli interessi amministrativi di una comunità rurale, quella di Forru o Collinas. E forse in Forru, nelle sue dimensioni attuali e nelle sue vestigia, il professor Orrù vedeva in qualche modo la sua Orroli… L’editore Delfino ha pubblicato negli scorsi anni l’opera omnia del Tuveri – “Tutte le Opere” – , del quale ricordo ci stiamo avvicinando a celebrare il secondo centenario della nascita (1815-2015). «Di quella raccolta di saggi tuveriani – soggiunge la Corona Corrias – con Tito Orrù curammo insieme l’edizione critica del secondo volume: lui specificamente trattò dei “Sofismi politici”, io invece mi occupai di “Delle libertà e delle caste” , che è un saggio fra i maggiori del filosofo ed ha preceduto i “Sofismi” d’una decina d’anni…».
     Ancora: «Di Tito Orrù, però, oltre allo studioso competente e specialista di Asproni e di Tuveri e in generale di Storia della Sardegna, con particolare riguardo all’Ottocento, si dovrebbe ricordare l’intuito geniale nel reperimento delle carte d’archivio – egli fu effettivamente un uomo d’archivio! –, ma anche il divulgatore e il promotore culturale soprattutto come presidente del comitato locale dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, il curatore ed editore del Bollettino Bibliografico della Sardegna… Si dovrebbero ricordare anche le nuove ricerche sui garibaldini e l’apparato critico che presto vedremo riguardo alle “Memorie” di Francesco Cocco Ortu, che stanno per uscire in stampa, a sua firma ed a firma di Marinella Ferrai Cocco Ortu».
     E’l’abbrivio per un altro approfondimento o il richiamo ad un filone relativamente recente di ricerca e di valorizzazione di una eminentissima (ma anche vituperatissima) personalità – quella di Francesco Cocco Ortu sr. – cui il professore s’era applicato, al solito, con generosità e valore. Mi vien da ricordare, del convegno del 1992, una relazione della Ferrai Cocco Ortu, al tempo direttrice dell’Archivio di Stato, proprio su «amicizia e colleganza» fra i Cocco Ortu e Giorgio Asproni: una relazione alimentata da una discreta corrispondenza di cui la Ferrai dette conto.
     C’era nel professor Orrù – azzardo, affacciando quest’idea alla Corona Corrias – una simpatia anche per questi personaggi, diversissimi fra di loro per molti aspetti, come potevano anche essere Francesco Cocco Ortu sr e Ottone Bacaredda – estranei a quel filone della democrazia repubblicana con qualche intreccio garibaldino che quasi costituiva il valore aggiunto per il quale si accendeva l’Orrù cittadino appassionato alla democrazia e alla autonomia regionale, come anche la militanza sardista degli anni giovanili faceva intuire. Perché Cocco Ortu e Bacaredda? Forse per quelle giovanili simpatie mazziniane, che pur non diventarono mai in essi professione repubblicana (sul piano istituzionale-costituzionale)? Per qualche aspetto della legislazione speciale cocchiana degli inizi del Novecento, con quelle casse rurali (che riscontavano nelle Ademprivili) le quali erano applicazione di un principio cooperativistico e dunque associativo? Per qualche più maturo approdo bacareddiano nella direzione del “liberismo organizzatore” che avvicinava ad una certa impostazione mazziniana, riformando il liberismo con elementi tipicamente democratici? Se ne potrebbe dire, raccogliendo suggestioni finora rimaste timidamente all’angolo.
     Ho detto Cocco Ortu e Bacaredda: i due, distanti appena sei anni l’uno dall’altro (del 1842 il primo, del cruciale ’48 il secondo) avevano tratti di somiglianza: entrambi avvocati, entrambi pubblicisti. Ricorderei soprattutto, glorificata dai sequestri di polizia, La Bussola del Cocco Ortu giovanissimo – 1861-62 –, dico del Cocco Ortu già associato al Ponsiglioni prossimo deputato anche lui e prossimo rettore dell’Università di Genova; e aggiungerei qui il riferimento ai rimandi mazziniani presenti del giornale, che già dall’indomani dell’unità d’Italia polemizzava contro un certo potere costituito e certa barbarie del costume anche giuridico: penso alle sentenze di pena di morte e alle impiccagioni nel capoluogo di cui il giornale dava rabbrividita cronaca!... Di Bacaredda giovane pubblicista ricorderei le collaborazioni nelle recensioni teatrali e letterarie e nelle note di colore e scapigliate, con vene anticlericali, della vita cittadina, offerte stabilmente a giornali come L’Avvenire di Sardegna dei primi anni ’70 o a periodici di affidamento tutto giovanile, come fu quello che portava come testata “A Vent’anni” di chiara impronta goliardica…
     Entrambi a lungo amministratori municipali del capoluogo. Dopo il crac bancario dell’87 – la cui responsabilità fu attribuita al Cocco Ortu e al suo partito comprensivo del Ghiani-Mameli, ex deputato, banchiere accusato in prima persona della bancarotta, finanziatore del giornale che sosteneva le tesi cocchiane – al Cocco Ortu s’oppose in termini più decisi proprio il Bacaredda, ripetutamente assessore in quegli stessi anni, che nel 1889 strappò al suo competitore il controllo politico del Comune. Nella crisi finanziaria e creditizia il Municipio aveva perduto cifre ingentissime, come pure la Provincia, la Prefettura (con la massa dei conti pupillari). La mazzata aveva colpito i risparmiatori e piegato l’economia dell’intera regione, in difficoltà anche per le conseguenze della guerra daziaria con la Francia…
     Ripeto: Cocco Ortu – deputato dal 1876 (lo stesso anno della morte di Asproni) e quasi subito segretario generale di ministero, poi ripetutamente ministro – fu accusato di aver sottovalutato la crisi e forse di avere addirittura alimentato quella bolla speculativa, la cattiva gestione fatta da impressionanti immobilizzi in intraprese minerarie ecc., che scoppiò infine rovinosamente. Per questo il controllo del Municipio – allora ancora nella sede castellana, di fronte alla cattedrale – passò a Bacaredda col suo partito della Casa Nuova appoggiato dalla frazione elettorale del Salaris. Entrambi – Cocco Ortu e Salaris – riferibili alla sinistra liberale a livello nazionale, avevano progressivamente marcato l’adesione a due fronti opposti dello schieramento progressista di centro in Parlamento: quello di Zanardelli e quello cosiddetto trasformista del Depretis che durò lungo tutti gi anni ’80 dell’Ottocento e si mutò poi in altro, nel mezzo autoritarismo crispino, con quanto ne seguì anche in termini di politica coloniale, di politica fiscale ai danni della piccola proprietà fondiaria (difesa da Cocco Ortu, il quale negava per questo la fiducia ai governi del leader siciliano). L’Unione Sarda come settimanale all’inizio, e quotidiano dopo, nacque allora per sostenere la linea di Cocco Ortu, anti-Depretis prima e anti-Crispi poi a livello nazionale, la linea ed il partito di Cocco Ortu perdenti in Comune ma sempre maggioritari in Provincia. La testata giornalistica – fieramente ostile ai leader governativi/parlamentari eccezion fatta per Zanardelli e Giolitti – riprendeva e rilanciava l’insegna dell’agitazione legale della metà e fine degli anni ’60 che s’era promossa in Sardegna per le ferrovie. A livello regionale era, può dirsi, un organo di collegamento, indubbiamente di qualità, dei comitati elettorali sparsi per collegi, a livello cittadino la spina nel fianco di Bacaredda.
     Superato il bipolarismo Cocco Ortu – Salaris per la morte (nel 1900) del secondo e anche per la rinuncia del Bacaredda a proseguire con la sua attività parlamentare iniziata non gloriosamente nel 1900 (dalla parte di Pelloux) e finita nel 1903, la politica sarda prosegue incarnandosi nella maggior dimensione cocchiana col giolittismo fin quasi alla grande guerra; relativamente marginali le posizioni in questo o quel collegio di crispini e radicali. Ed è tempo quello – in particolare il quadriennio 1906-1909 del terzo governo Giolitti con Cocco Ortu ministro dell’economia (agricoltura-industria e commercio) – che Cagliari coincide anche con la famosa “rivoluzioni” contro il carovita e, in positivo, con il varo della famosa legislazione speciale (anche creditizia, si pensi alle due Casse Ademprivili di Cagliari e Sassari) a favore della Sardegna: quella legislazione che sarà poi sottoposta a verifica nel famoso convegno di Castel Sant’Angelo del 1914.
     Certamente lo spessore umano e politico del Cocco Ortu e del Bacaredda intrigarono molto il professor Orrù. Però io credo, ripeto, che sia stata la comune base mazziniana – mazziniana non repubblicana, se sia mai possibile azzardare questa formulazione – ad aver acceso l’interesse del professore. Perché comunque egli i suoi protagonisti li ha presi sempre… dall’inizio, dalle premesse del loro impegno culturale, civile o politico giovanile.
     Dall’altra parte c’era il Bacaredda. Personalmente me ne occupai ne “L’Edera sui bastioni” (1988) e in altri studi. Ricordo perfino con una punta di emozione la lettura del suo discorso si insediamento, nell’autunno 1911, alla testa del Comune, ch’egli avrebbe presieduto per altri tre anni estremamente fecondi di opere amministrative. Perché la sorpresa fu quell’approdo ideologicamente quasi democratico che mi colpì per quelle prefigurazioni ancora più ardite che egli delineava nel discorso ai colleghi consiglieri. Ricordo, fra parentesi, che quella sua maggioranza per la prima volta accoglieva esponenti repubblicani, quando il partito dell’Edera – formazione pur di estrema minoranza – era riuscita ad esprimere, nella coalizione elettorale, ben tre consiglieri: Angelo Garau (il famoso chirurgo e docente), Raffaello Meloni ed Enrico Nonnoi (entrambi avvocati, più giacobino il primo, piuttosto ecumenico il secondo che fu anche abile novelliere).
     Pubblicai integralmente quel discorso all’Assemblea civica del 1911 perché mi parve un documento dimostrativo del passaggio di un certo liberalismo al livello delle istanze democratiche, appassionandomi ancor più alla figura del Bacaredda. Ma certamente a tanto egli giunse anche nella riflessione circa la questione operaia e gli spazi civili e sociali delle società mutualistiche, verso cui mostrò interesse e benevolenza. Nel 1905 tenne il discorso per il cinquantenario della fondazione della Società degli Operai di Cagliari (promossa dal mazziniano e massone, consigliere comunale negli anni successivi e “saggissimo” del Rito Scozzese Antico e Accettato Stefano Rocca, di nascita genovese ma ormai solido impianto cagliaritano). E ricorderei anche che fu molto attivo, il Bacaredda, anche nella ricerca di una soluzione adeguata e definitiva per la sede del sodalizio, allora in permanente migrazione. Riscattò nel 1895 il cimitero cosiddetto “degli inglesi” o “dei protestanti”– che fu infatti trasferito dalla via Venti Settembre al monumentale di Bonaria – e concesse l’area alla Società degli Operai che vi allestì uffici e sala d’assemblea su progetto del Simonetti. L’inaugurazione avvenne nel 1910.
     Del Bacaredda e del suo “liberismo organizzatore” nella Cagliari d’inizio Novecento ha scritto di recente proprio Maria Corona Corrias. Il suo saggio (“Cagliari nel ‘Liberismo organizzatore’ di Ottone Bacaredda e di Eduard Bernstein”, ripresa e sviluppo di un intervento svolto dalla stessa studiosa al convegno su “Cagliari tra passato e futuro” e rifluito poi nel volume degli Atti recante lo stesso titolo, uscito a cura di Gian Giacomo Ortu per i tipi della Cuec nel 2004) è stato presentato come originale contributo ad un convegno tenutosi nell’Università cattolica di Milano nel febbraio 2006 all’insegna di “Città e pensiero politico italiano dal Risorgimento alla Repubblica”, e con questo titolo gli Atti curati da Robertino Ghiringhelli sono stati pubblicati da Vita e Pensiero di Milano nel 2007.
     I maggiori riferimenti che della riflessione politico-ideologica del Bacaredda propone la Corona Corrias sono al discorso per il 50° della fondazione della Società degli Operai (il 30 aprile 1905), cui ho fatto cenno, e al suo successivo celeberrimo “L’Ottantanove cagliaritano”, scritto nel 1906 – all’indomani dei famosi moti “del pane” – ma pubblicato nel 1909. Un passaggio della bellissima e densissima relazione può aiutare a comprendere il rimando mazziniano del quale si diceva: «Dal momento che era stato “elargito” uno Statuto, questo doveva servire anche ad abbattere un odioso pregiudizio, “quello della innata ed insanabile inferiorità di una classe”; in effetti sembrava che “all’artigiano intelligente e laborioso fosse lecito aspirare ai comuni benefici della convivenza ed istruirsi ed educarsi e sentire lo stimolo della dignità umana e della responsabilità civile”. Questi nobili intenti erano resi possibili mediante l’associazionismo, ormai recepito nel diritto pubblico […].I tempi erano propizi alle nuove idee, non essendo ancora del tutto spenti gli echi della grande Rivoluzione, “cui sarà gloria immortale – secondo Bacaredda – l’aver proclamato i diritti dell’uomo e del cittadino”. L’idea democratica che gli uomini avevano bandita per secoli si riaffermava faticosamente, lanciata “dalla mente divinatrice di Gian Giacomo” per tutto il corso del XIX secolo, costringendo la tirannide a venire a patti. Non tutti volevano applicare lo stesso metodo: gli irruenti e gli impulsivi avrebbero voluto correre, mentre i trasformisti e gli addomesticati si accontentavano di camminare.
     Ancora: «Dalle “timide” libertà statutarie era scaturita una nuova primavera politica: c’era da fare una patria, c’erano da fare gli Italiani […] e nulla poteva servire ad affratellare gli animi quanto il sentimento della solidarietà. Sull’esempio della Francia con la sua “nazione armata” e il “mutualismo” erano da noi fiorite la Guardia nazionale e le Associazioni di mutuo soccorso, la prima destinata a soccombere, le seconde ad avere una sorte migliore, anche se “sospettate di origine troppo borghese e accusate di struttura e di metodi quasi capitalistici”. A opera del fabbro ferraio [Stefano Rocca], l’organizzazione civile dell’artigianato fu compiuta. Gli antichi gremii cittadini avevano ormai perso le loro illustri tradizioni; divisi rigidamente in quattordici piccole tribù, controllati dalle autorità politiche e religiose, costituivano una casta chiusa in seno al proletariato, un vincolo alla libertà del lavoro, anche se permeati di commendevole spirito altruistico.
     «Probabilmente, il Fabbro non aveva mai letto Mazzini, quel demagogo allora bandito e profugo, cui ora la Roma italiana sta per elevare un monumento (commenta Bacaredda), ma ne aveva intuito la profondità della dottrina che “il gran genovese condensava in quattro parole: ‘emancipare il lavoro, costruir l’operaio’”. Ciò significava, per un verso, liberare il lavoro da tutte le angherie, comprese quelle delle maestranze, e dai molteplici vincoli accumulatisi nell’evoluzione storica delle corporazioni; e per l’altro, costruire l’operaio, che implicava il considerarlo come un soggetto di diritto, come un’entità pensante e volente, da cui sarebbe scaturita una forza collettiva organizzata…».
     Io mi sento di aggiungere appena un breve passo del discorso bacareddiano di sei anni dopo: «Il fermento tenace ed irresistibile del principio democratico opera in ogni sfera dell’attività umana. Esso va trasformando il contenuto del diritto privato e apre sempre nuovi orizzonti agli atteggiamenti del diritto pubblico; esso solleva gli umili e abbassa i potenti; esso è il grande moderatore delle umane cupidigie, il grande mitigatore delle ingiustizie sociali. Se la libertà non è più un monopolio, né l’uguaglianza davanti alla legge una formula astratta, se la cultura è più accessibile, l’istruzione più diffusa, il lavoro più umano, se la ricchezza si va facendo meno egoista, meno feroce la giustizia, meno crudele la guerra, i più miti i costumi, più cordiali i rapporti, più tolleranti le opinioni, tutto ciò è opera della Democrazia».
     Sono figure, Cocco Ortu sr. e Bacaredda che meriterebbero nuovi studi. Su questo concorda la professoressa Corona Corrias, questo sosteneva – e ci si era anche effettivamente impegnato – il professor Orrù. Bisognerebbe peraltro dire che se sul secondo – su Bacaredda – i lavori usciti negli ultimi anni (anche con moltissime tesi di laurea) hanno puntato più al contesto o all’amministrazione realizzativa della Casa Nuova che non alla personalità propria del Bacaredda (a parte la sua vocazione e dimensione letteraria, che pure è in riscoperta anche per la intervenuta ripubblicazione dei suoi testi) , diverso è stato per il ministro, sul quale si sono accesi, negli ultimi anni, molti ma ancora insufficienti riflettori. Merito maggiore, come apripista, è stato quello del professor Sagrestani, che ha guardato con nuove luci alla copresenza cocchiana negli alti livelli della famosa pentarchia (includente all’inizio anche il Crispi!) e poi alla legislazione riformatrice impostata da Zanardelli e sviluppata da Giolitti, e riguardo specificamente alla Sardegna al Testo Unico del 1907. Ma degni di rilievo sono anche gli studi, e le corpose relazioni portate ai convegni da docenti e ricercatori come il Del Piano. Del pari altri hanno valorizzato – recuperando i materiali sia dalle anticipazioni delle “Memorie” che dalle testimonianze scritte del Curis – la lucida fermezza antifascista del Cocco Ortu decano della Camera ed ormai ottuagenario, con le sue pressioni sul re per la decretazione dello stato d’assedio nell’ottobre 1922 in chiave di contenimento preventivo dei “marciatori” sulla capitale. E, sotto un altro profilo, il tentativo di una prima legislazione divorzista, che molto gli costò in termini di avversione del mondo cattolico (il quale, fra parrocchie e comitati e unioni professionali ecc., raccolse ben quattro milioni di firme, nel 1904, per bloccare il progetto di legge parlamentare sostenuto dal guardasigilli Cocco Ortu).
     Insomma, superando il giudizio negativo riassunto nella celebre e sferzante definizione datane dal Satta (“sua eccellenza gialla”), in cui si compendiava il disprezzo del vate barbaricino per il notabilato assurto a classe dirigente della Sardegna nel lungo e contrastato passaggio di secolo; superando anche l’avversione ideologica di certo cattolicesimo politico e il lungo”sonno” imposto alla sua memoria dalla dittatura fascista, di Francesco Cocco Ortu si stanno ora rivalutando i fondamentali progressisti – naturalmente nel quadro liberale e monarchico – tanto a livello governativo/parlamentare quanto a livello locale, dove pur è vero che, nonostante le luci del 1907, la sua misura è apparsa non strategica ma essenzialmente notabilare (e anche per questo a lungo in conflitto con i prefetti di obbedienza depretisiana o crispina).
     L’attesa ed ormai imminente pubblicazione delle “Memorie” cocchiane, curate dalla Ferrai Cocco Ortu e dal nostro professor Orrù – che di esse mi parlò in numerose occasioni, curiosamente dando per scontato tutto il pregresso e “attaccando bottone”, sulla specifica materia, con simpatico e tambureggiante trasporto – costituirà però un autentico evento per i cultori della storia politica Otto-Novecentesca, e anche di questo saremo grati al Maestro.
     Si dice – ed è l’ultimo argomento che discuto con la professoressa Corona Corrias – che Tito Orru non abbia creato una sua scuola. Vero? Forse sì. Ma la spiegazione non lo diminuisce. E’ stata forse la sua generosità. Come docente egli ha sempre privilegiato il rapporto con lo studente, talvolta non selezionando, e disperdendo le sue energie in una infinità di campi. Soccorreva il ricercatore e e apriva le porte alla partecipazione. Puntava molte delle sue carte, specificamente sulla sua materia, sul caro e sfortunato Virgilio Porceddu.
     Lo studioso che “fiutava” il documento raro e magari rivelatore, il fondo archivistico – si ricordi quel suo saggio dal titolo “Gerolamo Azuni e l’archivio di Stato di Cagliari” – era anche e non di meno il professore che sentiva la scuola (aveva avuto anche esperienze liceali) e l’aula universitaria come un luogo in cui si avanzava insieme, docente e ragazzi. Bellissimo.
     Immagino cosa avrebbe potuto realizzare, con il professor Orrù e con Carlino Sole e la Corona Corrias, il nostro Bruno Josto Anedda, con Asproni e oltre Asproni, e oltre Tuveri, magari anche lui con Cocco Ortu e Bacaredda. Ritessendo più e meglio di quanto non sia stato fatto finora la rete delle minoranze democratiche e radical-repubblicane ad imprintig mazziniano-cattaneano in Sardegna, e di certo liberalismo sensibile alle provocazioni della dottrina democrtica. Avrebbe potuto definire alcune coordinate di ricerca, in esse inserendo anche quel garibaldismo ad esempio delle società operaie e mutualistiche in genere (non ideologizzate in senso repubblicano, anzi sovente dichiaratamente lealiste) alle quali, fra Asproni ed il Cocco Ortu del professor Orrù, quest’ultimo aveva guardato, frequentandole, con crescente entusiasmo negli anni che di poco hanno anticipato la sua morte.
     Desideri. Chissà che noi non si riesca a realizzare un giorno quel suo grande e inappagato desiderio di duplicare, fondendolo in bronzo, il busto del Generale che si trova nella sala della Società degli Operai di via Venti Settembre e collocarlo nella piazza che, a valle dell’antica via de Is Argiolas (divenuta Garibaldi dopo il fatidico 1882) collega tanti nomi della storia magna: Sonnino e Paoli, e della storia civica e letteraria Otto-Novecentesca: Farina, Bacaredda.
     Idee ed emozioni si affollano ripensando al professore e al suo mondo ideale e di studio. Fra breve uscirà, nella Rassegna trimestrale dell’Istituto di Storia del Risorgimento un bel ricordo steso dalla professoressa Corona Corrias. Un primo, o uno dei primi omaggi alla memoria di Tito Orrù. Perché anche gli storici sono degni qualche volta, e direi spesso, di entrare nella storia.

Gianfranco Murtas - 24/04/2012


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