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Romagnino: «Fedele sempre alla Repubblica,
nella mia militanza civile e democratica e come uomo della scuola…»

Una intervista del 1996 di Antonio Romagnino, sulla sua scelta repubblicana,
al ritorno dalla prigionia americana (1943-45) e nel suo impegno critico all’interno del Partito Liberale Italiano


     Intendendo celebrare il cinquantesimo della svolta repubblicana, realizzatasi nel giugno 1946 con il referendum istituzionale, pubblicai nel 1996 – su invito dell’associazione Cesare Pintus ancora a presidenza Ghirra – un agile volume recante la ricostruzione del dibattito politico in Sardegna “alla vigilia della Costituente” (così nel sottotitolo). In copertina, con il buono tricolore emesso dal Partito d’Azione per il valore di £. 500 e la causale consacrata a stampa – «Lotta per la Repubblica» – le molte testate periodiche dei partiti risorti nelle tre province: da la Voce del Partigiano a Sardegna Democratica, da Il Lavoratore a Il Solco, da Riscossa al Corriere di Sardegna, da Presente a Rivoluzione Liberale, da La voce di Sardegna a Sardegna Socialista a … in supplenza di una testata tutta isolana, L’Idea Repubblicana – “periodico culturale d’avanguardia” fondato a Roma nel 1946 da Giulio Andrea Belloni a sostegno del suo indirizzo “socialista mazziniano”.
     Quattro capitoli nella prima parte: “Riapre l’edicola della democrazia”, “Cinque progetti per Cagliari”, “Un referendum per la nuova Italia”, “Verso una Costituente… biancorosata”. Due tabelle con i risultati nazionali, regionali e nelle maggiori città sarde, del referendum istituzionale e delle elezioni per la Assemblea Costituente, a marcare la chiusura della prima parte del libro e l’inizio della successiva: qui il secondo e terzo capitolo guardano all’atteggiamento di due istituzioni non politiche ma spirituali ed etico-civili come la Massoneria (di Cagliari e di Sassari) e la Chiesa, nei confronti della grande posta in palio – rispettivamente “I cavour-mazziniani del compasso” e “Una diocesi tutta re-e-DC” –, per chiudere con una rassegna fotografica di documenti e giornali.
     Ma ad aprire questa sezione, come primo capitolo, ecco una intervista ad Antonio Romagnino intitolata “Alla scuola liberal d’America”. Il testo-resoconto (confermato dal professore) di una lunga conversazione, fra il privato e il pubblico, con l’intellettuale che non ha mai mancato, né allora né dopo, di “sporcarsi le mani” nel servizio effettivamente civile alla comunità cagliaritana, per aiutarla a maturare idealità e obiettivi di emancipazione morale e politica…
     Il libro – titolo:
1946, l’anno della Repubblica – fu presentato agli Amici del libro, lunedì 17 giugno 1996, davanti ad un pubblico folto e, oltreché ovviamente interessato, vario nella sua composizione, per un programma pensato soprattutto come raccolta di testimonianze e presentato con un sommarione delle maiuscole: “La Chiesa e il Giornalismo, l’Impresa e la Politica, la Scuola e il Sindacato, la Vita quotidiana in Sardegna alla vigilia della svolta referendaria”. Due i recensori magni – Gianni Filippini e lo stesso Antonio Romagnino – e sette i “testimoni”, ciascuno per il suo ambito o la sua esperienza o materia: Walter Angioi e Ottavio Cauli, Giovanna Crespellani e Simonetta Giacobbe, Salvatore Pirastu e Achille Sirchia e Marcello Tuveri.
     Due volte Romagnino, dunque: nello scritto della intervista pubblicata e nella parola (che varrà un giorno sbobinare dalla registrazione) offerta, sempre garbata e suggestiva e istruttrice, ai presenti.
     Ecco per intanto quanto è rifluito nelle dense sedici pagine del capitolo centrale, insieme d’analisi e di confidenza, di
1946, l’anno della Repubblica. (Valga qui il licet a un motivo d’orgoglio personale: un libro che, pur nella sua modestia, ha onorato un passaggio cruciale, e bello, della vita dell’Italia moderna).
«I cinquant’anni dal ritorno degli italiani, e fra essi dei sardi, alle urne, dopo la lunga parentesi fascista, sono una ricorrenza importante… Queste prime elezioni che sembrano non avere un legame stretto – e mi riferisco a quelle comunali del 1946 ed a quelle dell’Assemblea Costituente dello stesso anno, e poi alle prime consultazioni politiche del 1948 – sono invece strettamente legate. Si può dire che noi abbiamo vissuto come un’unica campagna elettorale, dal 1946 al 1948. E per “noi” intendo quelli che eravamo impegnati nella nostra rieducazione democratica».
     Sul filo della memoria, Antonio Romagnino – intellettuale di razza che come pochi altri ha inciso nella formazione di almeno due generazioni di studenti cagliaritani e non solo, e che per decenni ha seminato il suo pensiero democratico-liberale nei giornali e nelle associazioni – ricostruisce gli avvenimenti cruciali, della politica e del costume, della Sardegna di mezzo secolo fa.
     Gli domando: professore, a cosa precisamente si riferisce quando parla di “rieducazione democratica”?
«Io a questo riguardo vanto una fortuna, perché devo dire che, nella mia vita, c’è stata come una improvvisa svolta, una illuminazione, quando il 25 luglio 1943 – mentre ero in Atlantico, in viaggio dall’Africa settentrionale, dall’Algeria, precisamente da Orano, alla volta degli Stati Uniti, un viaggio durato una quindicina di giorni – abbiamo avuto un dispaccio da parte del comandante della nave, una “Liberty” che aveva partecipato allo sbarco in Sicilia. Abbiamo avuto la notizia della caduta di Mussolini. E quell’Italia che era nelle stive della nave si è rivelata: non solo negli orientamenti politici, all’ingrosso, ma si è rivelata nelle sue profonde lacerazioni, ed arriverei a dire anche nei suoi vizi. Perché – lo ricordo – nacque una zuffa, una rissa, guardata con sorrisi sarcastici dalla Military Police che era presente lì, fra chi gridava alla cosa, festeggiando la caduta di Mussolini, e chi gridava che era propaganda e non credeva neppure al dispaccio.
«Poi io credo che questa divisione mi abbia accompagnato a lungo anche nei campi di concentramento, perché nei campi di concentramento americani – dove io sono stato due anni e mezzo – ci si è offerta la possibilità, l’occasione di definirci. E mi avvio così a rispondere alla domanda. Infatti dopo l’8 settembre 1943 fu offerto ai prigionieri di guerra in mano alleata di lavorare, se lo avessero richiesto, secondo la convenzione di Ginevra che consente l’impiego, escluso quello bellico, dei prigionieri di guerra. E allora, questi 50.000 che dal 1943 erano in mano agli americani ebbero questa occasione, come tutti gli altri divisi nei domini inglesi, e che erano molti di più: erano un milione e mezzo circa già al momento della cattura nostra, e quindi gli inglesi avevano chiesto agli americani di prendersene una parte (ma non ne presero molti).
«Noi dovemmo sottoscrivere un documento, di cui conservo ancora la copia, nel quale sostanzialmente dichiaravamo di condividere la politica di quello che era rimasto del governo italiano, il governo del sud, e di condividere gli ideali, le motivazioni politico-ideali che muovevano il nord. Dei 50.000 che eravamo, 40.000 seguirono questa strada e 10.000, fascisti e no – perché ci furono crisi anche di altro tipo –, furono invece raccolti in un campo del Texas. Non è del tutto occasionale che ne abbia fatto parte Roberto Mieville, che era un ufficiale carrista, un ferrarese che conoscevo bene perché aveva fatto il corso ufficiali con me, e che fu poi il primo dei deputati del Movimento Sociale Italiano ad essere eletto, mi pare nel 1948».
     E dunque, cosa rappresentò per lei quell’esperienza di mille giorni in America, in una condizione certamente di cattività ma, par di capire, aperta a progressioni di libertà, di lavoro intellettuale?
«Ecco, in America io ho conosciuto un tipo di formazione, di autoformazione, di rieducazione attraverso sollecitazioni diverse, da quello che vedevamo, che sentivamo, che vedevamo nei campi, che leggevamo… Perché direi che sia stata straordinariamente formativa la lettura della stampa americana, una grande stampa, e ho paura che nella americanizzazione che ha subito l’Italia questi aspetti – la libertà, l’autonomia – non siano stati sempre raccolti… Io li colti nel New York Times, nel Washington Post e anche nei giornali per altro minori come il Christian Science Monitor, bostoniano, che è in sostanza la voce di una cultura cristiana, non propriamente cattolica, ma soprattutto di una intellettualità molto avanzata. E questo ci ha avvicinato alla democrazia, e direi che come elettore democratico ero bell’e fatto quando sono rientrato, nell’ottobre 1945, dall’America».
     Il dibattito politico allora ferveva, si era ormai alla vigilia della prima conta elettorale. Lei come si collocò? Come giocarono, in questo nuovo contesto, gli anni americani?
«Sono entrato quasi subito nella militanza, mi sono iscritto, nei primi mesi del 1946, al Partito Liberale Italiano. Avevo conosciuto Francesco Cocco-Ortu, non ci conoscevamo prima. Allora poteva accadere che cinque anni facessero generazione. Lui era del 1912, io del ’17. Lo conobbi, lo apprezzai, forse anche lo amai, se si può dire questa parola… aveva uno straordinario fascino, nella parola, anche nel modo di comportarsi pulito, aveva un passato intemerato, aveva anche una ascendenza che indubbiamente pesava, quel nonno ministro… Ecco, la mia militanza nel Partito Liberale non fu però una militanza tranquilla. Io non mi trovai a mio agio, forse non mi sono trovato mai a mio agio. Quando sono uscito – mi pare nel 1956, dopo dieci anni, dopo anche essere stato segretario provinciale – forse è stato tardi…».
     Insomma, lei sosteneva una posizione di liberalismo aperto, più di democrazia radicale che di liberalismo in senso classico, e non trovò un humus favorevole. E’ così?
«Devo premettere che il 1946 ed il ’48 furono vissuti da tutti, me compreso, politicamente, come scontro fra i comunisti e quelli che comunisti non erano. Ero, eravamo contro il socialcomunismo. Certo, c’era forse anche, più o meno consapevolmente forse, la delusione che fossero lì anche i socialisti, Emilio Lussu… In me, per esempio, c’era la memoria americana. Quando l’8 settembre 1943 arrivò la notizia della “resa incondizionata” dell’Italia, tutta la stampa americana pubblicò articoli che disegnavano l’Italia che ne sarebbe potuta sorgere, e li accompagnò – quasi ci fosse stata lì una specie di circolare tipo Minculpop – con due fotografie: quella di Emilio Lussu e quella di don Sturzo, perché nel mondo anglosassone erano i due filoni possibili: la democrazia laica e la democrazia, diciamo così, religiosa di origine. Ne ho, ancora oggi, memoria visiva. Apro il giornale e vedo Lussu. Ne avevo il ricordo da bambino. Lussu era nelle case di tutti i sardi, di tutti i cagliaritani, di tutti coloro che avevano partecipato alla prima guerra mondiale, era un santino, c’era la fotografia col nome… quel “per una zolla di terra” ecc. Lo ricordo con gli occhiali, spiritato, questo Lussu, ed ecco me lo sono trovato l’8 settembre nelle pagine dei giornali americani.
«Allora c’era questo scontro: di là le sinistre, di qua il blocco democratico, liberale, il grosso impegno della Chiesa per sostenerlo. Bisognerà dire, per inciso, che, nel Partito Liberale, Cocco-Ortu era un fervido credente: c’era anche questo problema, da tener presente. C’era la delusione cocente che questo credente ebbe da parte della Chiesa: lui, un congregato mariano, sa che la Congregazione Mariana fa altre scelte, che padre Abbo sostiene altri che lui…».
     Cos’era, dunque, il liberalismo italiano ed isolano o cagliaritano di quegli anni? Quale era il peso effettivo di Francesco Cocco-Ortu nell’ambito del Partito Liberale?
«Domando a me stesso: perché non mi sono ritrovato nel Partito Liberale? Intanto io non condividevo l’equazione liberalismo-liberismo. Ero di formazione crociana, sono rimasto di formazione crociana. Se potesse esser letta la mia avventura elettorale del 1979 con questa chiave, forse qualche accusatore ritirerebbe il suo giudizio. Io sono rimasto, come formazione, magari anche chiusa e limitata, alle letture liberali, a Croce. Io non ho poi letto nulla del marxismo, io non posso dire di averlo rifiutato, di averlo accolto, no, io non lo conosco, non l’ho letto, non ho letto Marx, ho letto pochissimo anche Gramsci.
«Io mi sono sentito sempre a disagio nel Partito Liberale. Intanto – e sono qui in pieno 1946 – io ero dei pochissimi militanti che avevano fatto una scelta repubblicana. Io col mio compagno, poi amico fedelissimo e collega Nicolò Fara-Puggioni, critico musicale notissimo, docente al liceo Dettori, ci contavamo sulle dita… In sostanza, il Partito Liberale – e non ne avevo allora piena consapevolezza – rappresentava una sorta di conservazione, di moderatismo, che non aveva niente a che vedere con quanto si era andato disegnando in me con gli ideali dei liberal come li avevo appresi e rielaborati in America. Aggiungo che a farne la struttura in Sardegna erano possidenti, un’élite nei paesi, is meris, persone rispettabili, appartenenti ad un ceto che però non era il mio, che non sarebbe mai stato il mio.
«Dunque, respingevo l’equazione liberalismo-liberismo, e poi c’era il mio repubblicanesimo e c’era la sensazione di questa conservazione. Andando un po’ avanti con gli anni, direi che molti notabili del PLI, alcuni dei quali erano rimasti fuori del fascismo, non s’erano intruppati cioè, furono loro a premere perché i liberali si incontrassero coi democratici cristiani. Perché, in qualche modo, si configurava allora una specie di consociativismo produttore di posti, di incarichi: erano uomini sicuramente validi, ma che diedero al PLI subito un legame stretto con la DC che avrebbe determinato anche certe candidature, come quella, al Senato, di Raffaele Sanna-Randaccio. Fu un incontro fra una minoranza conservatrice e una grande forza popolare.
«Cocco-Ortu restò sempre il leader del partito, pur essendo di cultura assai diversa rispetto a quella della generalità dei militanti del PLI, soprattutto rispetto a quella dei militanti della provincia».
     Pur con tutte le sue riserve, lei visse quegli anni dentro le organizzazioni liberali, in un’area decisamente anticomunista. Visse sempre, cioè, il valore pre-politico o ideologico della democrazia liberale ed occidentale, senza mai un tentennamento. Ho capito bene?
«Sì, è assolutamente così. Non voglio dire che guardassi ai socialisti, ai comunisti, no. Noi eravamo anticomunisti: bisogna proclamarlo questo. Le elezioni del 1946 e del ’48 hanno queste radici, questi antagonismi, ed anch’io mi schierai senza tentennamenti. Io continuo a sostenere che quel periodo e quelle elezioni – sempre diverse per quello che chiedevano agli elettori e diverse per quello che dovevano essere, una volta amministrative, un’altra e un’altra ancora politiche – devono vedersi fasciate da una stessa atmosfera.
«Direi che il mondo in cui abbiamo vissuto questi ultimi anni di mutamenti rapidissimi – e in questo ha ragione Hobsbawm quando afferma che questo è un “secolo breve”, che ha una accelerazione forte –, questa accelerazione forte, che io riconduco a una unica scelta ideologica, a una divisione ideologica, io non la vedo in quegli anni ormai lontani. Allora c’era un lento procedere, un procedere che al suo interno non conosce cambiamenti. Non si vota diversamente dalle elezioni del 1946 a quelle del ’48, e dalle amministrative alle costituenti nello stesso ’46. E’ sempre lo stesso voto. Non c’è cambiamento negli umori. Noi votavamo anticomunista sempre, contro il cosiddetto “blocco del popolo”. Io ho una esperienza personale al riguardo: feci il presidente di seggio a Carbonia, dove il blocco socialcomunista ebbe il successo che poi fu rinnovato. Al grido di gioia che ogni volta si accompagnava alla lettura del voto per le sinistre, io provavo fastidio, fermo com’ero, appunto, nella mia posizione anticomunista».
     Ma di cosa, in realtà, si sostanziava questa sua posizione?
«Lo dico a titolo personale, perché essa non è stata forse da me approfondita, vigilata, al mndo che lo fece Cocco-Ortu. Egli sarebbe stato il primo a parlare, a Cagliari, di Kruscev e quindi delle rivelazioni che venivano da quel mondo, che era un mondo antagonista anche nella vita democratica comune. Quello era un mondo che faceva saltare gli ideali liberali. Non se ne aveva pieno sentore, perché quei famosi muri hanno funzionato, non hanno permesso dialettica. Però azzarderei un’altra cosa: che ad alleggerire l’eventuale antagonismo della polemica agisse la grande stima che si erano guadagnata, ma che avevano già, gli esponenti di quella sponda lì… Per esempio, come si fa a non ricordare la personalità di Renzo Laconi o quella di Emilio Lussu? Anche quando erano spinosi, come Velio Spano, c’era l’aureola dell’esule, della persecuzione ricevuta, della fuga cui erano stati costretti dall’Italia, del carcere… cose che nel sommerso agivano, se non altro non davano posto all’odio».
     Questo ci porta a una riflessione sulla resistenza antifascista, al suo giudizio di allora e di oggi su quell’esperienza militare ma intrisa di forti idealità politiche, che restituì, col contributo determinante delle armate alleate, l’Italia alla democrazia.
«Io che vivo questi anni recenti, li sento più laceranti di quelli. Non mi convincono gli storiografi e politologi che pure stimo, come Panebianco o Galli della Loggia, che stanno, in qualche modo, rimettendo in discussione la resistenza, quella resistenza che noi abbiamo vissuto, per pareggiare i combattenti delle due parti, fascisti ed antifascisti.
«Però, nella rieducazione democratica che ci siamo dati, dobbiamo mettere la metabolizzazione graduale ma sicura della scelta ideologica che avevamo fatto della resistenza. Rimettere in discussione che anche gli altri meritano rispetto, ho paura che voglia far rischiare gli ideali sicuri e superiori della resistenza. “Anche gli altri – dicono Galli della Loggia e Panebianco o altri della stessa scuola – anche gli altri combatterono per degli ideali, perché era troppo vergognosa la sconfitta che avevamo subito, e in qualche modo bisognava lavarla”. E l’avrebbero lavata la Repubblica di Salò e i giovani che caddero, i giovani che si presentavano volontari.
«Devo dire che non mi costa nulla il rispetto verso questi, non mi è mai costato nulla; mi costa di più il tentativo di avvicinamento. Io non vanto nulla che possa pareggiare le scelte combattute, però in America, fra il 1943 e il ’45, abbiamo fatto scelte che ideologicamente erano per la resistenza. Ci siamo calati di più in quel campo, e più consapevolmente, dopo, e devo dire che quando siamo ritornati dalla prigionia, questi partigiani che qui avevano una certa vivacità – nella città avevano un circolo, un luogo di riunione – li abbiamo incontrati, qualcuno molto valoroso, altri meno…
«Ecco, invece, il problema della cultura: la resistenza è entrata nella cultura democratica, anche di quelli che in quegli anni potevano non averla. Cosa è avvenuto nella scuola? Io sono stato un uomo di scuola per trent’anni e l’ho commemorata, nel liceo Dettori, la resistenza, tante volte. Rachel, il mio preside, sapeva che su di me poteva contare. Io non so se abbia fatto sempre bene, però è curioso che sia stato incaricato della cosa a cui non avevo partecipato, ma che avevo “introiettato” via via negli anni per farne un frutto che si poteva offrire. Voglio dire: un tema che poteva entrare nell’educazione civica, che io ho creduto, in qualche modo, di servire nei particolari insegnamenti cui ero chiamato.
«Non credo che nei trent’ani che mi è accaduto di fare scuola, oltretutto nella stessa scuola, nel liceo Dettori, dove c’era anche un ceto prevalente, io abbia fatto mai riserve sulla guerra di liberazione. Io ricordo anche battibecchi con allievi che cominciavano a simpatizzare per la destra estrema e il Movimento Sociale. Finiva lì, come altri battibecchi e altre polemiche».
     Lei fu volontario di guerra. In che modo può stabilirsi un parallelo fra gli ideali che la mossero a quell’avventura e l’impegno partigiano di altri più giovani?
«Sì, io ho partecipato alla guerra del 1940 come volontario. Ho fatto domanda e c’erano pochi altri cagliaritani, e mi hanno mandato prima in cavalleria, poi nei carristi, ecc. Arrivo a dire anche questo: che lo sono stato, volontario, anche dopo che poteva esser finita la guerra vera, la guerra guerreggiata, perché andai in Africa nel 1942, dopo che era stata emessa l’ordinanza per cui i sardi che si trovavano in Africa sarebbero dovuti rientrare in Sardegna perché dovevano difendere l’Isola dallo sbarco americano.
«A questa ordinanza, che fui chiamato a rispettare da un maggiore sardo del mio reggimento, io mi opposi. Dissi: io voglio andare in Africa. Cioè confermavo, con quell’atteggiamento, il mio volontariato di guerra. Io sentivo la guerra come un dovere. Io, anche dinanzi alla mia famiglia – ero già laureato, ma avevo anche problemi in casa – mi sentii di presentare domanda… Influivano sicuramente anche certe letture sulla prima guerra mondiale, che in qualche modo si deformavano, ma entravano… la guerra come sacrificio, come impegno morale, la devi fare perché altri la fanno… Per cui ecco: io voglio andare lì dove è il mio popolo, dove è la mia gente. Io affrontai le stesse difficoltà di questi altri commilitoni.
«Noi facevamo una guerra che non era fascista, era una guerra che si faceva più per una sorta di solidarietà nei confronti di chi la subiva, la pativa obbligata. Quando siamo partiti per l’Africa, nel 1942, sapevamo che era già tutto fatto. C’è un particolare inedito: quando ci diedero un numero, che era in sostanza un numero della censura per la posta, non so se per scherzare oppure perché prendemmo una cantonata, lo prendemmo come il numero del campo di concentramento a cui eravamo destinati. Un paradosso, uno scherzo forte: ecco, siamo già prigionieri … Come infatti accadde.
«Arrivai in Africa che El Alamein era in rotta, quindi tutta la mia guerra fu una guerra di ritirata, dal fronte di El Alamein fino alla Tunisia, dalla caduta della Tunisia del 1943. Perché dico questo? Perché questo tipo di guerra come solidarietà può ben portare agli ultimi due anni del conflitto, nella prigionia americana, che mi ha allineato sulla scelta della guerra partigiana. Non mi pare che si rinneghi nulla, mi pare che ci sia continuità. Io, poi, non ho paura di certe parole. Mi fa piacere che tornino a circolare. Si è perso molto tempo… Queste parole sono: nazione e patria. Il sentimento nazionale lo sento forte, l’ho sentito in tutta la mia vita, l’ho portato a scuola. Dico l’idea purificata di nazione, si capisce».
     Insisterei un attimo ancora, prima di tornare alla politica locale del 1946, su questi aspetti poco conosciuti della sua biografia in bilico fra privato e pubblico, e che anticipano il suo impegno democratico. Mi riferisco alla sua prigionia americana.
«La cosa è, brevemente, in questi termini: furono create delle cosiddette “unità di servizio” che erano formate da soldati e da ufficiali che le guidavano. Le attività erano di casermaggio, c’erano lavori agricoli, lavori di imbarco e sbarco di materiale bellico nei porti… Però prevalentemente erano lavori agricoli.
«Io poi fui impiegato nell’azione di propaganda. Andai per i campi insieme con un ufficiale sardo – il colonnello dei carabinieri Mameli, ogliastrino (tutti i Mameli sono ogliastrini e sono parenti, si dice, di Goffredo!) – a preparare, a convincere, a fare propaganda di questa iniziativa di “allineamento democratico”. Eravamo una decina: venivano accolti bene, qualche volta male, perché c’erano quelle resistenze che ho detto, le resistenze della nave. Il binomio si riproponeva sempre, la lacerazione c’era, poi ce la siamo portata in Italia. Ho trovato anche coetanei e conterranei che hanno voluto fare una scelta diversa, e c’era sempre, non una ostilità, no, però una certa distanza».
     Torniamo al 1946. La Chiesa fu tra i protagonisti del confronto ideologico, partecipò alla conquista dei posti in consiglio comunale ed anche a Montecitorio. Come visse lei, democratico liberale e laico, quell’intrusione forzata e spregiudicata del clero nelle cose della “città terrena”?
«L’invadenza della Chiesa era massiccia. Non so fino a che punto corrispondesse al vero, ma io ero chiamato da Cocco-Ortu “un anticlericale dell’800”, e lo capisco, a distanza, intuisco che cosa volesse dire. Perché era infastidito dai miei radicalismi. Egli era un credente che pativa, però, che soffriva di questa invadenza della Chiesa più di quanto potesse patire un laico o un credente tiepido. Però c’erano, e ne ho anche individuato, delle centrali che erano poi quelle parti del clero che contavano di più, avevano più entrature nella borghesia. Io parlo sempre in termini di una realtà urbana, che è quella che conosco di più.
«Credo che questo unico periodo di vita democratica, di democrazia zoppa, in città, sia sempre stato dominato dalla borghesia medio-alta, commerciale, professionale. Anche l’aristocrazia, ma meno, già contava meno di prima… e direi quindi che su questa borghesia – la Cagliari de is buttegas, dei negozi – aveva molta presa la Chiesa. Perché la Chiesa allora aveva la forza dei grandi circoli cattolici. Pensiamo all’importanza grande che hanno avuto a Cagliari i salesiani e la Congregazione Mariana, della quale ho detto prima. Pensiamo a quali legami stringevano i borghesi e una parte del popolo, artigiani in particolare, le famiglie di costoro che mandavano i figli per un supplemento di educazione sociale. Il circolo non era semplicemente un luogo legato alla devozione, era un luogo di ricreazione e intrattenimento, quindi aveva una funzione educativa, si entrava nella Congregazione Mariana – come io sono entrato – perché si frequentavano quei ceti e si aveva quindi una conoscenza ravvicinata del modo di comportarsi meglio. Nelle elezioni del 1946 e del ’48 questo si è fatto sentire.
«Quando ho organizzato agli Amici del libro, a distanza di tanti anni, la serie dei “cagliaritani illustri”, ho messo, fra gli altri da commemorare, anche il padre Giuseppe Abbo. Questo ha fatto rumore fra i miei amici, e soprattutto fra gli amici di estrazione marxista. La mia risposta quale è stata? Non si può cancellare la storia; padre Abbo è stato un personaggio potente della vita della città, se non altro come supporto di personaggi della vita pubblica che si son affermati. Sarebbe impossibile pensare, che so, ad un Efisio Corrias senza padre Abbo… Dico, nel senso migliore della parola, che egli è stato un personaggio eminente della vita cagliaritana di qualche decennio. E questo, certo, quando si andava ai risultati, infastidiva.
«Fa pensare il dramma di questa città, dove un candidato cattolico praticante, antifascista, di posizioni liberali come Francesco Cocco-Ortu viene battuto alle elezioni del 1953, del ’58, riesce in quelle del ’63 ma solo grazie al collegio nazionale, era riuscito pure nel ’48 ma non alla Costituente. Ecco, fallisce tante volte lui e riesce invece Enrico Endrich. Cioè la borghesia cagliaritana – perché era lo stesso elettorato – batteva Cocco-Ortu e portava in Parlamento Enrico Endrich».
     Queste sue osservazioni introducono di filato all’approfondimento delle vicende del liberalismo organizzato nel capoluogo e nell’intera Isola fra 1946 ed anni immediatamente successivi. All’indomani delle amministrative, che li aveva visti perdenti (zero seggi), i demolaburisti – radicali moderati ma comunque repubblicani – confluiscono, attraverso l’Unione Democratica Nazionale – verso i liberali, coi quali partecipano alla competizione per la Costituente. Dopo le elezioni del giugno 1946 si avvia l’operazione di confluenza qualunquista nel fronte liberale. Bene, come giudicò lei quei movimenti che indubbiamente modificavano la geografia interna del PLI?
«Ho conosciuto approssimativamente bene la prima conversione demolaburista verso il liberalismo. Ho conosciuto benissimo ma ho assolutamente disapprovato la seconda, e lì è iniziato il mio contrasto, il mio screzio con Cocco-Ortu il quale, consapevole più di me della debolezza elettorale del Partito Liberale, credette che quella debolezza potesse essere sanata o contenuta dagli apporti dei qualunquisti.
«Io facevo valere – ma era soprattutto un sogno di intellettuale, idealistico – il peso delle persone, dei candidati potenziali. Non servì a nulla. Perché si credette che quello che il PLI non aveva saputo prendere subito nella borghesia, si potesse prendere con questo elettorato di tono più basso. Non è un caso che la parola “qualunquista” sia diventata, in fondo, una parola dal senso negativo, usata per personaggi diversi, per occasioni diverse, per formazioni diverse. Tutto quello che sa di superficiale, di approssimativo, si dice “qualunquista”.
«Allora io credevo di avvertire questo, facevo quindi un discorso di opposizione che non fu gradito. Cocco-Ortu non lo gradì. Anche perché lo credevo, questo, e non rettifico niente, in stridente contrasto con quella che era l’immagine di Cocco-Ortu fuori della Sardegna, che era l’immagine che avevo potuto verificare. Era l’immagine che lui si era guadagnato presso i redattori del Mondo.
«Le poche volte che mi accadde di accompagnarmi a Cocco-Ortu in visita alla redazione del Mondo in via Campo Marzio, io assistetti ad una accoglienza trionfale: vedevano l’incarnazione del liberalismo aperto, progressista, dibattuto nel giornale, di valore nazionale. Qui, invece, i liberali prendevano candidati tiepidi – lasciamo stare la cultura, di livello sempre molto basso e molto ritardato, in generale – ma anche portatori di un ideale miope, angusto, non liberale, non progressista, non aperto, che ancora difendeva il campicello, anzi si muoveva perché, per esempio, era temutissima la riforma agraria. Il vero nemico di quelli che si diceva fossero i “grandi elettori” del PLI, quelli che si diceva facessero confluire i voti, cioè i proprietari terrieri della provincia che ora si sentivano insidiati, il nemico numero uno di quei liberali o liberal-qualunquisti, guardato con ferocia, con avversione, non era il comunismo, non era Spano e neppure Laconi, ma Segni, che era il fautore della riforma agraria».
     Par di capire che il qualunquismo cambiò pelle e natura al liberalismo sardo e non solo sardo, introducendo questa sorta di pseudovalore nel quale esso si identificava.
«A Cagliari, lo votassero o no – e io credo di no – Cocco-Ortu continuava, a parole, ad essere il leader di questo potenziale liberale. A Sassari c’era Abozzi, in sostanza il qualunquismo in Sardegna l’ha fatto Abozzi. Qui a Cagliari, ancora a darmi ragione, c’erano delle modeste figure che non si riusciva a capire cosa potessero dividere col PLI colto e di professionisti che io avevo conosciuto e vissuto, anche dissentendo, nella sede di viale Regina Margherita, di fronte alla Scala di Ferro.
«Io lo devo dire, sarò magari presuntuoso, non è una colpa… Io ho sentito nei confronti dei qualunquisti il fastidio d’una cultura molto modesta, molto alla buona. Allora Cagliari poteva permettersi queste diagnosi, queste indagini. Era tornata ad essere, in quegli anni, una città con le sue piazze vissute – piazza Martiri, piazza Yenne –, dove ci si incontrava a parlare, a discutere facilmente, come prima della guerra, quando di questi incontri erano protagonisti gli studenti di scuole diverse: liceo Dettori ed Istituto industriale, liceo Dettori ed Istituto Pietro Martini, o Agrario… Questo accadeva, che ci si incontrava, dopo le lezioni, e si maturava un rapporto che magari poteva durare tutta la vita, e che è durato, quando si è sopravvissuti alla guerra.
«Ecco, questo costume è tornato brevemente, magari questo tipo di rapporto io lo faccio finire nelle piazze dei comizi. C’era questo parlottare, questo chiacchierare, del tutto spontaneo, anche nelle piazze, negli incontri che si faceva ancora in quegli anni. Io ho conosciuto tanti giovani di varia militanza, e i qualunquisti li ho conosciuti lì.
«Non è che il mio giudizio fosse allora preconcetto. Poteva essere un giudizio sbagliato, ma non era avventato, non è che venisse da una qualche esperienza, e poteva essere anche una esperienza distorta, e il giudizio un po’ presuntuoso, ma io facevo delle riserve… e questo, ho detto, mi alienò delle simpatie e l’intesa con Cocco-Ortu».
     Ma il qualunquismo non le pare, in fondo, un carattere antico, atavico, di questa nostra città un po’ spagnolesca, con pochi slanci ideali?
«Sì, il qualunquismo io credo sia stato una forma di quel moderatismo che a Cagliari è stato ed è, diciamo così, una regola eterna. Un moderatismo che non significa virtù: la virtù dell’essere cauti, prudenti, misurati. No, il qualunquismo è stato in quegli anni l’anticamera del Movimento Sociale. Ci furono comizi di quel Mieville, con successi di piazza. E c’era il moderatismo tradizionale della borghesia cagliaritana che non aveva tagliato col fascismo.
«Allora era molto letto L’Uomo Qualunque di Giannini, anche qui da noi, era un giornale che si vedeva in giro come quello di Feltri oggi, esibito. Può darsi che fossero esibiti anche l’Avanti e l’Unità, non saprei. Comunque, il giornale e il Fronte dell’Uomo Qualunque credo siano stati l’incubatrice di questa opposizione di destra, che si è fatta sempre più critica nei confronti delle formazioni democratiche e del centro e, devo aggiungere, ha purtroppo assicurato una continuità.
«Voglio dire che non credo che a creare la situazione attuale sia stata la grande crisi della partitocrazia. In realtà c’era un fiume carsico – a Cagliari come in Italia – che è emerso, e questo va verso il Movimento Sociale che prima è guardato con cautela – era il successo delle grandi adunate di piazza SS. Cosma e Damiano e di piazza Amendola – e viene dal Movimento Sociale verso di noi. Di quegli anni ho una memoria visiva sicura. E l’Uomo Qualunque assicurava questa presenza nelle piazze, anche se, in fondo, l’Uomo Qualunque ha una sua breve comparsa. Così, quando le cose non sono più come si vagheggiano, si lascia il Partito Liberale e si entra nel MSI. Questo si deve riconoscere. Nel PLI rimane la dirigenza, ma l’elettorato no …
«Giannini ebbe questo grande successo perché piaceva il suo tono scanzonato. Egli dava voce ai mormorii, non è che facesse il politologo. I suoi valori erano, non meno di quelli della sinistra estrema, all’opposto dei miei, democratici liberali. Mi ispiravo al sentimento anglosassone, americano, della democrazia. Negli anni ’70 portai nella sala dei professori del liceo Dettori, dove si facevano le chiacchierate prima di entrare in classe, quel libro sulla democrazia interpretata da Giovanni Sartori – allora in procinto di lasciare l’Italia per gli Stati Uniti – e che era stato pubblicato dal Mulino, la casa editrice che aveva realizzato l’incontro fra il filone cattolico e quello laico prima di tutti. In quello studio veniva arricchita l’eredità crociana ed avevi il riecheggiamento della vita delle grandi democrazie. Ecco, il mio modello, già negli anni ’40, era quello».
     E siamo al capitolo “referendum”. Lei fece una convinta scelta di campo, optò decisamente per i repubblicani. Quale era, da questo punto di vista specifico, lo scenario culturale e civile dell’Isola e della sua città capitale?
«Parto dal privato. Nel 1946 non ero sposato. Io sono nato e vissuto in Castello, toccavo con mano gli umori delle vecchie generazioni. Sa visita ’e su rei è fra gli avvenimenti capitali nella vita di una persona, e mia madre ricordava il Vittorio Emanuele III che scendeva dal Palazzo Viceregio per portarsi al museo per appagare le sue passioni numismatiche. Si dice che fosse venuto a Cagliari per quello.
«Cagliari era una città monarchica, per questo vago istinto di non cambiare nulla e di accarezzare la potenza, il prestigio. Quando viene a Cagliari, nel maggio 1946, Umberto II ha una accoglienza trionfale, fu un soggiorno breve, venne quasi alla chetichella, mi pare di ricordare che si sia appena fatto vedere, affacciandosi alla Prefettura o in piazza del Carmine. E però il risultato gli ha dato ragione. Questa è una città che ha votato per la monarchia, quasi un plebiscito.
«Se partissimo, per caprie le cose, finalmente dal passato, perché tutto si svolge lentamente, dovremmo ricordare che qui i sovrani sono stati di casa. Le generazioni che ho conosciuto ricordavano Umberto I, Margherita, la fondazione del Comune del ’99, e poi anche nella mia fanciullezza e giovinezza c’era questa presenza: forse non mi rendevo pienamente conto che c’era una devozione, come si usa dire…
«La scelta monarchica del ’46 ha rivelato, per la prima volta a noi, che lo zoccolo duro della città era la conservazione. Dirò così, e può essere che questa sia una lettura partigiana della DC: ma la DC ha raccolto questo tipo di elettorato conservatore, anche se ha avuto il coraggio della riforma agraria, che doveva favorire un certo interclassismo… Non è che a Cagliari si siano conosciuti radicali che sposavano il loro radicalismo alla fede, alla patria cristiana… Al referendum la città dimostrò che la scelta monarchica era condivisa anche da una parte dell’elettorato che votava a sinistra, non ci fu corrispondenza fra la sommatoria dei suffragi andati, il 2 giugno, ai partiti schierati per la repubblica ed i voti che al referendum andarono alla repubblica. Qualche correzione importante si ebbe, comunque, già nel ’48.
«La monarchia l’ha votata, ho detto, un numero considerevole di cittadini di sinistra, e questo è più importante di tutto, bisognerebbe rifletterci sopra. Si credeva ancora alla monarchia. Ci sarebbero voluti tanti anni per conoscere le responsabilità dei Savoia…
«Ricordo che quando in America, fra il 1943 e il ’45, io parlavo di scelta repubblicana, i miei oppositori erano ufficiali di carriera, i quali mi facevano capire che loro avevano giurato fedeltà al re. No, rispondevo: voi avete giurato fedeltà al Paese, e quando torneremo e si sceglierà, voi dovete pensare se al Paese convenga o no la conservazione del pensiero e dell’istituto monarchico.
Aggiungo che questo problema io l’ho affrontato anche con un mio carissimo amico, che ha avuto una certa fama nazionale, mio padrino di cresima in America. Io mi sono cresimato in America. L’arcivescovo di Saint Louis, che era un vecchio, quasi novantenne, irlandese, espresse il desiderio di cresimare i prigionieri italiani nel Missouri che ancora non fossero cresimati.
«Allora accadeva facilmente si facesse, da bambini, la prima comunione, ma non subito la cresima, che aveva dei rituali periodici e si rimandava. Sicché si arrivava al matrimonio e uno non era cresimato… Si mise il problema del padrino. Avevo fatto amicizia con un capitano – mentre io ero sottotenente – della mia stessa età, al quale lo chiesi. Lui si schermì, ma alla fine accettò. Era un ufficiale effettivo che aveva quel problema della fedeltà monarchica, e che poi, tornato in Italia, risolse con una brillante carriera. Sarebbe stato conosciutissimo nella NATO, oltre che in Italia, tanto da diventare, dopo che direttore della scuola di guerra di Civitavecchia, comandante dell’Arma dei carabinieri durante il sequestro Moro.
«Pietro Corsini era un uomo di grande intelligenza, coltissimo. Ecco, era un monarchico, era uno col quale io ho discusso tante volte sulla coincidenza fra i suoi ideali di militare e di patriota e gli ideali repubblicani, ma era difficile. Con Fara-Puggioni ci dava un blasone dentro di noi l’aver scelto la repubblica. E siamo rimasti fedeli a questa scelta, nella nostra militanza civile e democratica e di uomini della scuola …».

Gianfranco Murtas - 05/10/2012


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