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Omaggio a Giannetto Massaiu

     Al fine di onorare, e nel personale raccoglimento e però anche nella condivisione ideale, la cara memoria di Giannetto Massaiu ho ripreso in mano il testo della sua tesi di laurea, discussa presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Sassari nell’anno accademico 1968-69, relatore il prof. Mario A. Cattaneo.
     Già militante del Partito Sardo d’Azione, ed in esso nel novero degli esponenti più attivi della corrente/movimento di Nuovo Azionismo, fra i più lucidamente consapevoli dei nessi teorici e di storia fra sardismo e repubblicanesimo di matrice e mazziniana e cattaneana, egli aveva colto l’occasione della laurea per sistematizzare, attraverso letture ordinate e rielaborate, idee e conoscenze, affinando anche quel taglio critico che lo avrebbe caratterizzato negli anni della maggior maturità. Con 53 rimandi bibliografici, fra diritto e storia, individuati per metà nell’orizzonte nazionale e per metà in quello più strettamente regionale, aveva spaziato nella produzione di dottrina, inquadrando la forza politica d’appartenenza, sì con i suoi limiti ma anche con le sue "profezie", sul largo scenario dei partiti nazionali tesi alla costruzione della "nuova" Italia, in democrazia e repubblica. Titolo della tesi: "Il dibattito autonomistico nel PSd’A dal 1943 al 1947".
     Non si tratta di un elaborato lungo, dato anche lo scoperto intento antologico: sono appena 21 pagine, ma pregnanti quanto è perfino difficile immaginare, con la storia che arriva al confronto, pur implicito, con l’attualità. Sono gli anni, infatti, quelli fra il 1968 ed il 1969 (ma con un’anticipazione già nel 1967), della più acuta lacerazione interna del PSd’A, giusto a vent’anni dalla scissione voluta da Lussu. In costanza di mandato parlamentare, ed appartenenza al gruppo PRI, dell’on. Giovanni Battista Melis. Tutto quindi, nell’antologia sardista ricomposta ai fini dottorali da Giannetto, salda inevitabilmente, ma senza improprie sovrapposizioni, il passato al presente.
     Seguono alle proposizioni del giovane laureando, ben 56 articoli pubblicati sul "Solco". Le firme sono quelle di Emilio Lussu e Luigi Battista Puggioni, Gonario Pinna e Pietro Mastino, Luigi Oggiano e Pietro Melis, Bartolomeo Sotgiu Pesce e Gian Giorgio Casu, Cesare Pintus e Dino Giacobbe, Anselmo Contu e Antonio Bua, Piero Soggiu e Giuseppe Barranu, e di diversi altri. Personalità estremamente diverse fra di loro, per vissuto personale, retroterra morale e ideologico, ambiente anche formativo ed esercizio professionale, ma capaci di finezza d’analisi e proposta politica che mai più il Partito Sardo conoscerà negli anni avvenire.
     Né mancano, nella lunga appendice di repertorio, cronache e deliberati congressuali dei Quattro Mori, e la sequenza delle formulazioni/schema di progetto statutario per la Sardegna in una logica di autonomia speciale, ai limiti del patto federale (più avanzato l’articolato a firma di Gonario Pinna, nato repubblicano e giunto al sardismo attraverso la breve militanza azionista – iniziata al congresso di Bari e portata poi a Nuoro –, più moderato quello siglato da Luigi Oggiano). In un quadro nazionale ancora in fieri, sul piano costituzionale e su quello delle alleanze politiche nella prospettiva di un mondo sempre più rigidamente diviso in sfere d’influenza delle superpotenze.
     L’indirizzo antologico del lavoro di tesi, che Giannetto presenta come "tentativo di giustificare le ragioni di una scelta", cerca di valorizzare il "contributo particolare ed originale alla dialettica dei rapporti Stato-regione" fornito dal PSd’A all’indomani del secondo conflitto mondiale: "originalità e particolarità esaltata dalle condizioni di virtuale isolamento economico, geografico, e soprattutto culturale e spirituale in cui l’isola si trovò negli anni che vanno appunto dal 1943 al 1947".
     Ecco di seguito alcuni passaggi fra più significativi del testo di Giannetto. Ad iniziare da alcune considerazioni sulla retrostoria, insieme di cornice e di sostanza (rapporto nord-sud, questione meridionale) in cui pare di intravedere, in un profilo implicito, una attualissima acquisizione delle linee guida, di saldatura fra istanze socio-economiche e disegno istituzionale, segnate da Ugo La Malfa attraverso la Nota aggiuntiva al bilancio dello Stato del 1962 (effettivo atto di battesimo del centro-sinistra):

     "La rinnovata, o conquistata, coscienza del divario di condizioni economiche esistente fra le varie regioni in Italia, fra Nord e Sud in particolare, portò ad individuare nello Stato articolato su basi regionali il sistema politico-amministrativo capace di consentire un più democratico ed armonico sviluppo del paese".
     "Occorre a questo punto ricordare che l’istanza regionalistica è stata tradizionalmente collegata ad una istanza democratica e che la sua natura fu sempre essenzialmente politica. Il che vuol dire, da un lato che, se la questione regionale può essere, in astratto, sia problema di efficienza tecnica ed amministrativa in un quadro politico istituzionale almeno relativamente stabilizzato, sia problema di lotta politica, in Italia ha prevalso in genere il secondo aspetto; e dall’altro, che se, in assoluto l’autonomia regionale può corrispondere tanto ad una istanza di progresso nella democrazia, quanto ad una istanza di conservazione, in Italia essa è stata rivendicata da forze che, essendo escluse dalla gestione del potere ambivano parteciparvi attraverso di essa, non dalle forze che già lo detenevano".


Il primo sardismo e il secondo
     Lasciato Giovanni Battista Tuveri ("pensatore originale e profondo, federalista lucido e acuto" ma "isolato") e attraversate le vicende isolane della seconda metà dell’Ottocento, con l’arretratezza dei sistemi produttivi, la crisi delle esportazioni e l’inizio della diaspora migratoria, nonché le varie inchieste parlamentari (da cui verrà la legislazione speciale del Cocco Ortu), Giannetto giunge ad esaminare l’esperienza presardista. Ciò per dimostrare il riferimento obiettivamente progressista del movimento autonomistico postbellico:

     "La coscienza del proprio stato, l’autocoscienza di sé, in altre parole una coscienza di classe, i contadini sardi la maturarono nelle trincee della Grande Guerra. Inquadrati in Brigate regionali, guidati da ufficiali sardi, scoprirono finalmente di essere una forza, messi a contatto con la realtà economica e civile di regioni più fortunate, sentirono tutto il peso delle ingiustizie antiche e recenti (…).
     "I reduci sardi, ridiventati contadini, organizzati nella Federazione dei Combattenti e dal ’21 nel Partito Sardo d’Azione diventarono protagonisti in prima persona della vita politica isolana. Le clientele che avevano monopolizzato la vita pubblica fino alla guerra si dissolsero e per la prima volta nella storia dell’isola un movimento di massa a base contadina, democratico e repubblicano, liberista e cooperativista, profondamente influenzato dal pensiero meridionalista di Gaetano Salvemini (…), fece del popolo sardo il protagonista della sua storia".
     "L’autonomia fu la bandiera ideale, la proposta politica attraverso cui si risolvevano i problemi regionali, il mito capace di esaltare l’intellettualità urbana e le folle contadine. Nessuno stupore quindi se dopo la parentesi fascista, nel clima di ritrovata democrazia, L.B. Puggioni, leader del risorto Partito Sardo d’Azione, possa pronunziare il suo heri dicebamus riproponendo identici i motivi e le tesi di vent’anni prima"
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     Conclusione logica e inevitabile, quella del direttore regionale sardista. Ma anche adeguata ai nuovi tempi? Qui Giannetto inizia la sua analisi, emancipandosi dalle suggestioni (e dai rischi) della retorica della "piccola patria sarda". Richiamate diffusamente le posizioni di Puggioni (e del gruppo liberista-salveminiano sassarese, fedele all’inidrizzo bellieniano) nella primavera 1945 – esemplari tessere del mosaico ideologico e di motivazioni del risorto sardismo, con l’identificazione "nella autonomia (della) essenza stessa della democrazia e della libertà", ed il corollario del liberismo ("lo strumento che rende padroni del proprio destino economico, sottraendo allo sfruttamento di uno Stato "liberale e democratico solo nelle apparenze" una regione che per le sue risorse naturali… avrebbe dovuto conoscere da tempo un grande benessere e splendore") –, ecco Giannetto avanzare una acuta osservazione sugli obiettivi di fondo del PSd’A ed i loro condizionamenti.

     "La rigenerazione dell’isola in tutti i campi, politico e amministrativo, economico e sociale, culturale e morale, non lo smantellamento dello Stato accentratore e livellatore": questo, a suo giudizio, il campo finalistico di una classe dirigente – non tutta però, né tutta allo stesso modo o con la stessa intensità elaborativa e dialettica – che la riconquistata possibilità di parlare e scrivere proietta in una sorta d’ebbrezza pansardista. "I sardisti, in quegli anni, ameranno spesso definirsi federalisti, ma a ben guardare ci si accorge che il tipo di organizzazione auspicata sembra presupporre un federazione fra Stato italiano da una parte e Regione sarda, economicamente e politicamente autosufficiente, dall’altra; volevano, si potrebbe dire, fortemente la Regione, ma erano indifferenti sostanzialmente al problema delle regioni".

     Ecco il primo limite: un arretramento, potrebbe anche azzardarsi, rispetto ai traguardi raggiunti nel 1923 con il progetto di "partito italiano d’azione", federazione dei partiti regionali. Auspici allora soprattutto Camillo Bellieni e Francesco Fancello, scrittori della rivista "Volontà", la stessa in cui firmavano Ferruccio Parri e Achille Battaglia, e numerosi altri destinati poi – appunto un ventennio dopo – a infoltire i quadri dirigenti del Partito d’Azione di Lussu e La Malfa.
     Sì, non più, o non soprattutto, la questione sarda posta in stretta connessione con la questione autonomistica "nazionale", ma la questione sarda che vuol risolvere se stessa attraverso un patto diretto, e quasi da pari a pari, con lo Stato e le istituzioni centrali.
     Proprio perché non rinnega né derubrica al rango degli scarti il suo rapporto sentimentale con i Quattro Mori ed il loro "Forza Paris", Giannetto può permettersi ogni affondo critico. Egli scorge i limiti di quella impostazione che sarà maggioritaria nel PSd’A – ma con Lussu e altri con lui, come Pintus o Pinna (gli azionisti cioè) già idealmente fuori –, "ignara del nesso intercorrente fra gli ordinamenti politico-istituzionali e la realtà economico-sociale che essi sottendono, largamente condizionata nella sua intima coerenza da una esaltazione tutta letteraria della "grandi" risorse naturali della Sardegna e delle sue possibilità commerciali, persino ingenua nel ritenere di poter risolvere il problema sardo senza dover contemporaneamente affrontare il più generale problema delle strutture politico-amministrarive dello Stato democratico, fosse adeguata a raggiungere gli obiettivi che diceva di voler perseguire". Coglie i limiti, le angustie, gli impacci, ma guarda oltre, e più in profondità …
     Mette a fuoco gli interessi "che ci si proponeva di tutelare" da parte del PSd’A: "quelli tipici di una società agraria arretrata, una società rurale singolarmente ripiegata su se stessa, con lo sguardo tutto rivolto ad un passato recente che rappresenta la sua unica concreta esperienza di vita politica organizzata, chiusa ed indifferente ad ogni apporto culturale esterno, incapace di pensare il proprio futuro se non in termini agricoli, di recepire la lezione dello sviluppo, che era sviluppo industriale, di quei paesi occidentali che pure costituivano i suoi punti di riferimento in termini politico-ideologici.

     "Non può dunque stupire la povertà del dibattito autonomistico che in esso si svolge, specie se confrontato a quello ben più vivace e stimolante che in quegli stessi anni si sviluppa fra i risorti partiti italiani e che vede primeggiare per ricchezza, lucidità, e modernità di apporti proprio quel Partito Italiano d’Azione col quale, sia pure senza molto entusiasmo, si ricercano accordi organizzativi in nome di – in realtà molto vaghe – affinità ideali".

     Mi permetto qui una incursione personale, di giudizio storiografico quale può scaturire, credo, dalle cinquemila pagine che ho dedicato, negli anni passati, a questo fenomeno complesso, contraddittorio e affascinante, che ho chiamato del "sardoAzionismo" (con minuscole e maiuscole in associazione), e di cui mi capitò anche di conversare, a Nuoro, con Giannetto (mi pare proprio nella giornata del convegno dorgalese su Fancello, che mi vide relatore insieme con il prof. Brigaglia).
     Il Partito Sardo d’Azione degli anni 1943-1947 aveva ben poco da spartire, sul piano ideologico, con il Partito d’Azione con il quale pure, per volontà di Lussu, strinse un patto federativo nel settembre 1944. Un cartello che consentì al PSd’A – unico partito regionale d’Italia – di avere una sua rappresentanza, l’anno successivo, nel governo di CLN (con Pietro Mastino sottosegretario al Tesoro con delega ai danni di guerra nei ministeri Parri e primo De Gasperi) e nella Consulta nazionale (con Luigi Battista Puggioni). E di acquisire nella sua militanza gli aderenti alle sezioni isolane del Partito d’Azione/Giustizia e Libertà (così la sua denominazione). Ma ciò avveniva in nome di Lussu, e per volontà (e anche tatticismo) di Lussu, e in cambio appena di una dichiarazione di principio, secondo cui i Quattro Mori si riconoscevano, per quanto riguardava la politica nazionale ed internazionale, nelle posizioni azioniste.
     Qui fu il punto centrale della contraddizione di quell’intesa: in quel riconoscersi, sic et simpliciter, nella linea azionista, il che significava – dal congresso di Cosenza dell’agosto 1944 a quello di Roma del febbraio 1946 – identificarsi nelle posizioni maggioritarie di Lussu, e perciò nel suo rigorismo socialista, mantenuto integro certo fino al 1949 (alla sua confluenza formale nel PSI cioè), e nei fatti mai intimamente condiviso dal PSd’A, dirigenza e militanza.
     Ché semmai una forza politica poteva essere più consentanea al PSd’A della metà di quegli anni ’40, quella era il PRI, non estraneo in Sardegna – a differenza che in campo nazionale – alla logica ciellennista (con i suoi Saba e Senes, Meloni e Garau, ecc.).
     Né poteva essere soltanto questione di socialismo. Lussu aveva maturato una consapevolezza politica che ai suoi antichi sodali dei Quattro Mori le circostanze avevano negato. Chiaro: l’esperienza del confino e quella dell’emigrazione per quasi tre lustri in quel di Francia, ma con dinamismi continentali e anche transatlantici, avevano fatto di Lussu un leader a tutto tondo, e riconoscibile per tale, al di là del tasso di condivisione del suo bagaglio ideologico-politico. Ma un leader che sapeva sussumere la questione sarda, pur con tutte le sue specificità, all’interno della maggior questione meridionale, e la questione autonomistica sventolata nell’Isola all’interno del nuovo impianto istituzionale dell’Italia repubblicana, e non poteva dunque più considerare l’interesse della Sardegna (o ogni interesse della Sardegna) come assolutamente prioritario su ogni altro della patria risorta in democrazia. (Magistrale, da questo punto di vista, l’intervento di Ugo La Malfa, ministro del Commercio con l’estero, in verità sempre accompagnato da Giovanni Battista Melis, replicato in ogni Camera di commercio isolana, nel 1952).
     Naturalmente gli equivoci lussiani c’erano e non erano neppure tutti colti nella loro evidenza – come invece avrebbe fatto La Malfa al congresso azionista del 1946 –come per il grado di compatibilità fra un impostazione dottrinaria socialista in economia (dirigismo) ed una impostazione dottrinaria federalista in campo istituzionale-politico.
     Chiusa la digressione.

Autonomia e regionalismo
     Circa l’aspetto propriamente politico della questione regionale all’interno della storia italiana (da lui definita come "sollecitazione e sviluppo delle energie locali per la formazione di una classe dirigente" e "concorso ad una migliore garanzia della libertà"), Giannetto volge la sua specifica attenzione alla elaborazione del PSd’A nel quinquennio 1943-1947: "Dapprima in un solco rigidamente garantista, per cui la Regione è esaltata come baluardo dei poteri locali contro l’invadenza di quello centrale; in un secondo tempo, quando il progressivo affermarsi anche in Sardegna dei partiti di massa rese evidente che i gruppi sociali, nella società moderna, tendono ad organizzarsi non più territorialmente, bensì verticalmente, secondo le professioni, cioè come gruppi nazionali di pressione, sottolineando in modo più marcato l’aspetto del partecipazionismo democratico: la Regione, cioè, è lo strumento che avvicinando l’amministrazione al cittadino consente una più larga partecipazione democratica al governo della cosa pubblica.

     "Per quanto collocato in un quadro politico per taluni aspetti lacunoso, non sempre coerente, tutto volto al passato, incapace di cogliere compiutamente i reali termini della situazione in cui i problemi del regionalismo e dell’antiregionalismo si agitavano e soprattutto di saper intuire le linee di sviluppo della società italiana, tuttavia il sincero autonomismo democratico del Partito Sardo seppe suscitare nell’isola una tale tensione autonomistica che non rimase poi senza effetti ai fini del definitivo successo del regionalismo in Italia".
     "Certo vi erano – prosegue nella sua ricostruzione interpretativa Giannetto – delle ragioni storiche per cui si poteva, e forse si doveva, guardare al passato. Si usciva da una esperienza autoritaria, nettamente contraria alle autonomie locali, e per negarla era più facile riprendere il discorso al punto in cui era stato lasciato prima che essa prevalesse; forse non si poteva chiedere di più ad una generazione di intellettuali che dopo venti anni di forzato silenzio e di isolamento culturale si trovarono a dover assumere responsabilità pubbliche in un mondo del tutto diverso da quello in cui avevano maturato le proprie esperienze, senza avere alle spalle l’esperienza dolorosa e tragica dell’esilio e della resistenza, attraverso la quale, gli intellettuali democratici italiani erano venuti a contatto con le forze vive della cultura europea".
     "Detto dei suoi limiti, va riconosciuto al gruppo dirigente sardista di quegli anni il merito di aver elaborato una definizione giuridico-istituzionale della Regione quale mancò a molte forze politiche coeve, sul piano politico più mature e moderne".
     "La Regione dei sardisti è un ente elettivo-rappresentativo, autonomo-autarchico, amministrativo-legislativo. E’ tale definizione il punto di arrivo di un notevole sforzo di elaborazione in un campo in cui molte sono ancora oggi le incertezze".
     "Di solito infatti, l’autonomia viene, seppure a torto, identificata con l’autonomia normativa per un verso, con la elettività delle cariche dall’altro. E’ questo, come spiega M.S. Giannnini, un errore non solo pratico, ma anche teorico, che nasce dalla falsa premessa che elezioni e democrazia siano due momenti di uno stesso fenomeno. Errore pratico perché porta ad esaurire la democrazia nei suoi aspetti formali, errore teorico perché la democrazia è un modo di essere dei rapporti fra Stato-ordinamento e Stato-persona, l’elezione un modo di conferimento delle cariche.
     "In realtà, a ben guardare, né la cosiddetta auto-amministrazione (o autogoverno), figura organizzativa tipica degli enti a base associativa, consistente nell’affidare le cariche direttive dell’ente a persone fisiche scelte dai consociati, né l’autonomia normativa, posizione giuridica consistente nella capacità di emanare norme equiparate, quanto alla loro natura, alle norme dello Stato, né, infine, l’autarchia, altra posizione giuridica consistente nella capacità di emettere atti amministrativi dotati delle caratteristiche della validità e dell’efficacia degli atti amministrativi dello Stato, costituiscono da sole l’autonomia locale: sono appena alcune delle condizioni che la rendono effettiva.
     "L’autonomia locale, e quindi anche l’autonomia regionale, è invece l’autonomia politica dell’ente locale e questa autonomia è una posizione giuridica che si estrinseca nella possibilità di attuare una azione politica propria, di non sottostare istituzionalmente all’indirizzo dello Stato, cioè in pratica del Governo".
     "L’autonomia locale, intesa correttamente come autonomia politica dell’ente locale, può reputarsi perciò una forma di decentramento politico, da non confondere con altre forme di decentramento che siano di natura amministrativa".
     "Ma l’autonomia locale può rimanere una semplice affermazione di principio ove non sia sorretta, oltre che dai requisiti già ricordati, da un sistema di controlli contenuti rigidamente nei limiti della funzionalità, una autentica e sostanziale autonomia finanziaria, una serie di funzioni delle quali l’ente sia l’esclusivo titolare, una intima coerenza fra istituto giuridico e aspetto territoriale, che l’ente sia cioè commisurato alla sua comunità. Specie i primi due, più che dei requisiti, debbono considerarsi dei presupposti, in assenza dei quali l’autonomia non va oltre gli aspetti esteriori e formali".
     "Il principio di differenziazione delle funzioni discende dal presupposto che esistano interessi generali, cioè né particolari né sezionali, ma di dimensione locale per cui si rivela tecnicamente conveniente per lo Stato-ordinamento sottrarre allo Stato-persona la gestione vitali interessi e affidarli alle comunità locali".
     "Individuate così le funzioni degli enti locali ed assegnate ad essi, a seconda della maggiore o minore autonomia che intende concedere, o tutte le funzioni di dimensione locale, ancorché di natura statale, come nel sistema dell’autogoverno adottato dai paesi anglo-sassoni, o le sole funzioni di dimensione e natura locale, lasciando allo Stato quelle di natura statale ed istituendo così un sistema binario, il principio per cui le funzioni proprie degli enti locali devono essere svolte da attuali enti in modo esclusivo richiede una applicazione rigorosa".
     "La situazione di fronte alla quale si trovava chiunque volesse gettare le basi di una riforma dell’ordinamento nel 1943-47 è quella di una profonda ingerenza dello Stato nella vita degli enti locali, sacrificati nella loro autonomia ed assoggettati ad una vera e propria direzione di carattere politico. In queste condizioni, la questione regionale non poteva non porsi che parallelamente al problema della riforma in senso autonomistico dell’intero ordinamento italiano".
     "Pochi, e generalmente inascoltati, furono coloro che in quegli anni ebbero coscienza di tale parallelismo, coloro che seppero discernere fra il vecchio e il nuovo, fra la riproposizione pura e semplice dell’ordinamento del 1915 e gli sforzi per superarlo, fra la riesumazione dei programmi pre-fascisti e le innovazioni più recenti, fra le visioni ancorate alla società italiana come società agraria, che aveva visto nascere l’idea regionale e lo sguardo già rivolto ad esperienze straniere in quanto possibili modelli della futura società italiana, fra la declamazione fino a se stessa dell’autonomia locale e la compiuta prospettazione dei requisiti che la rendono effettiva in uno Stato moderno".


     Questo quanto mi pareva importante recuperare e riproporre – per la modernità e lucidità della impostazione politica – di un testo firmato da Giannetto Massaiu, in una fase cruciale della sua vita e della sua formazione intellettuale.

Democrazia e liberaldemocrazia
     Chiudo questo breve ma doveroso atto di omaggio affacciando qualche rapida riflessione su una delle posizioni da lui espresse in diverse circostanze, soprattutto di dibattito congressuale partitico, e che sempre mi colpirono. Mi riferisco in particolare al suo rigetto della definizione (corrente negli anni ’80) del PRI – quel PRI che aveva assorbito, nell’Isola, anche la linfa sardista – come formazione "liberal-democratica". Egli era per un attributo più tranchant: formazione "democratica".
     Potrebbe sembrare un lusso discettare di tali nominalismi, oggi che la casa è crollata seminando morte, non solo in Sardegna, fra gli apostoli del repubblicanesimo e semmai caricando qualche zombie esploratore. Ma credo che gli spiriti rimasti liberi e intellettualmente indipendenti – mai però neutrali –, questo lusso possano permetterselo perché esso si prospetta qui come un ripasso intelligente della propria vita pubblica (sia pure in ventiquattresimo, fra pratica partitica e pratica nei giornali).
     Nella storia delle idee politiche, e anche nella produzione delle tribune in cerca di pubblico, è venuta sovente più dalla parte dei liberali che da quella dei democratici la sottolineatura delle differenze, degli orgogli propri e delle riserve verso l’altrui identità. Questo ancora oggi, anche all’interno dell’Ulivo dove la presenza liberale, che peraltro ha mostrato coraggio e assoluta dignità intellettuale e civica nella difesa della propria tradizione ideale, ha confermato la propria irriducibilità ad ogni altra espressione.
     Viene da quel fronte la diffidenza verso l’ideologia delle maggioranze, attribuita tout court alla esperienza della democrazia.      La nettezza con la quale Giannetto rivendicava alla ortodossia democratica l’essenza stessa del PRI nato mazziniano (in una culla di moralità dunque, e nel dato umano e in quello civile con tutte le tavole dei "doveri", appunto dell’uomo e del cittadino), influenzato però anche dalle correnti federaliste ed empiriste della seconda metà dell’Ottocento, in realtà – a mio avviso – non puntava ad opporre democrazia a liberalismo, ma a considerare la democrazia come un avanzamento, una promozione storica del liberalismo, e dunque un superamento del liberalismo, non un sua sconfitta. Ciò perché assumeva (la democrazia) tutti i postulati teorici del liberalismo, ma affrancandoli dalla stretta identificazione fra libertà formali e libertà economiche, ed integrandoli in una dimensione sociale e in una cornice istituzionale che costituiva infine il solo spazio di emancipazione delle plebi al rango della cittadinanza. In buona sostanza: il riferimento delle libertà era, per la democrazia repubblicana, sì anche ed ancora in capo all’individuo, come teorizzato dal liberalismo (che era ben più che liberismo), ma all’individuo nel suo nesso con il popolo d’appartenenza, quel popolo che era, che è "portatore" della missione storica.
     Io, come Giannetto, rinnovo la fede civile in questa tavola valoriale, tanto più oggi per l’Italia (l’Italia tutta intera) nel contesto dell’Europa unita.
     E’ fin troppo noto quanto i democratici repubblicani sassaresi facevano alla Frumentaria di fine Ottocento, con quelle scuole serali approntate apposta per i contadini e gli zappatori: perché solo l’alfabetismo avrebbe consentito loro l’elettorato attivo, e quindi una soggettività politica oltre che civile. Questa era, è la democrazia che dice del protagonismo delle classi del lavoro.
     Per questa centralità del civile e del dato istituzionale nell’area delle libertà moderne, la democrazia si è differenziata e dal liberalismo e dal socialismo, tendenti entrambi a collocare quella centralità piuttosto nell’economico. Ed essendo essa meno del liberalismo e del socialismo costretta da condizionamenti dogmatici, oggi essa è diventata, più nettamente che nel passato, il luogo dell’approdo e del liberalismo e del socialismo, cioè delle forze di progresso chiamate al governo dell’interesse generale.
     Tutte le istanze democratiche hanno puntato alla dimensione civile e istituzionale: dalla rivendicazione del suffragio universale alla repubblica, alle autonomie territoriali. Quel tanto che lasciava indifferenti e liberali e socialisti era nel cuore della riflessione e della rivendicazione politica della democrazia, soprattutto nella versione del repubblicanesimo. (Lo stesso sardismo, man mano che si è evoluto nella sua elaborazione teorica, ha acquistato consapevolezza della radice dalla quale era, in effetti, germinato. Perché non si fu tutti repubblicani, fra i sardisti degli anni ’19 e 20 e perfino dopo, a partito formato e lanciato. La suggestione monarchica e l’impasse agnostica convissero all’inizio con la opzione repubblicana, della quale soprattutto i giovani erano portatori).
     Io stesso, nell’"Edera sui bastioni" – che molto aveva impressionato Giannetto ora sono già quasi vent’anni! – avevo portato una doverosa attenzione di analisi a quella consapevolezza che era stata all’origine del movimento democratico nel post-risorgimento, e che da quel passaggio fra Ottocento e Novecento s’era poi riproposta nel secondo dopoguerra, a illuminare la costituzione della risorta democrazia... "Cittadini. C’è un’eco giacobina in questo sostantivo che apre ogni documento testimoniale, ogni certificato di milizia attiva sul fronte democratico. E’ la regola repubblicana. Per i monarchici – non è difficile intuirlo – è un’eresia, una bestemmia. Nel vocabolario dei dinasti è presente un altro termine – sudditi – un’espressione che riassume secoli di una storia che conosce la discrezionalità invece della legge, che ignora del tutto il principio dell’erga omnes e piuttosto ammette le medievali tabelle dei benefici che solo la generosità del trono, anche in regime statutario, può elargire secondo le sue particolari convenienze. E d’altra parte, non era stato un maestro come Giovanni Bovio a scrivere una volta: "I sudditi non furono mai emancipati dai sovrani: le nazioni non conseguirono mai libertà maggiori da iniziative di rappresentanze: un ordine di cittadini non fu mai sollevato dall’ordine superiore"?
     "Nella parola "cittadini" è insita una certa carica eversiva, di rigetto radicale delle pretese investiture divine di poteri illiberali, dottrine superate cui si oppone ora il dogma democratico secondo il quale fonte esclusiva del potere è il popolo. Niente astrazioni teologiche, niente conseguenti assolutismi regi, e, invece, la concretezza e la certezza del diritto costituzionale, dell’ordinamento che coordina diritti e doveri fra cittadini, fra organi dello Stato e, infine, fra cittadini ed organi dello Stato. Naturalmente in repubblica".
     Sì, è così: la liberal-democrazia alla quale Giannetto guardava con diffidenza era il nominalismo; perché la liberal-democrazia era, è, in effetti, approdo democratico (e istituzionalmente anche repubblicano) del liberalismo. L’evidenziazione "oppositiva" della matrice storico-ideale della corrente e dell’istanza di dottrina liberale non è più, e tanto più nell’epoca moderna, a costituzione fatta e a repubblica consolidata, elemento differenziale.
     A Giannetto si poteva anche richiamare, e l’avrebbe accolta nella sua riflessione sempre seria ed onesta, l’esperienza umana e politica del nostro comune maestro, di Ugo La Malfa cioè, approdato alla democrazia del Partito Repubblicano Italiano – quello dell’edera richiamante la Giovine Europa – dopo aver mosso i primi passi nella formazione della Democrazia Sociale dei Trentin e poi nell’Unione Democratica di Giovanni Amendola, formazioni entrambe di passaggio fra liberalismo riformista e democrazia riformatrice, ma ancora – l’amendoliana soprattutto – attraversate da persistenti sentimenti di lealtà dinastica.
     Caro Giannetto …

Gianfranco Murtas - 04/02/2006


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